Cronaca di un casino emotivo

Come sublimare in musica il dolore e guai sentimentali? Come farne uno degli album più famosi e venduti della storia? Si può seguire il “metodo Fleetwood Mac”, di cui questo è il perfetto esempio. Ma partiamo dall’inizio.

Fleetwood (Mick) e John McVie, il primo uno spilungone con capelli lunghissimi liscissimi, l’altro tutto riccio e baffoni/barba, insieme nella vita praticamente fin da teenagers, sono i due co-titolari del nome Fleetwood Mac. Sono figli artistici di papà John Mayall, il Rettore dell’Università del blues inglese, e da lì si parte.

Il blues inglese di quegli anni ha una sola ispirazione – i bluesmen americani – ma tanto quanto sono vari gli originali, così lo sono i loro discepoli. I Fleetwood Mac trovano presto il loro spazio.

Il centro non è il cantante (come in quasi tutte le band) ma le chitarre, è una band con due/tre chitarre (elettriche e slide), il suono è quello. Sono parecchio ortodossi, moltissime cover dei “padri”, negli anni arriveranno tanti album insieme ai loro maestri (Muddy Waters, il suo pianista Otis Spann, parecchi super musicisti del giro della Chess di Chicago). Ma sono anche molto eclettici: ambient-blues come “Albatross”, o feroci acusto-rock come “Oh Well” e “Green Manalishi” sono degli hit da top-5.

Tutti brani di Peter Green, uno dei chitarrista migliori della cucciolata in blu, da molti considerato addirittura il numero 1, più di Eric Clapton, detto God. Chiunque sa un po’ di rock, la storia la conosce. Partito (di arte e di testa) Green, i Fleetwood Mac hanno mantenuto la rotta, a volte imbarcando fior di talento (Danny Kirwan, che ci ha lasciato poco tempo fa, e Christine McVie, che di McVie diventa anche sposa), altre volte discendendo in un pop che non fa onore a nessuno. Pop? Con il blues? Eppure…

Quando nel ‘75 Fleetwood ascolta un demo di due sconosciuti fidanzati, carriera finora da bar, lei cameriera per portare qualcosa a casa, e chiede di conoscerli, scocca non una scintilla, ma un fulmine nel cielo di Los Angeles.

All’inizio F&M2 (vale per i McVie, lui e lei, cioè il trio superstite) vorrebbero Lindsey Buckingham, ma questo chitarrista, evidentemente talentuoso ma tutto da scoprire, gli dice «siamo in due. Anche Stevie o niente», probabilmente F&M2 non si rendono conto che colpo di culo gigantesco che hanno avuto.

Ok, si dicono, «due cantanti donne potrebbe funzionare». Non sanno – né lo sa nessuno al mondo – quanto funzionerà. Hanno trovato due diamanti grezzi, quella che in gergo calcistico si chiamerebbe la versione Primavera di due che trasformeranno la storia di una band gloriosa, ma ormai esaurita, nella band che per un lustro dominerà le classifiche di tutto il mondo.

Questo nuovo quintetto fonde insieme due mondi apparentemente lontani. L’alchimia è una magia di Lindsey, che cresce a velocità supersonica come autore, cantante, chitarrista, produttore, in pratica il vero pilota del progetto. Come si diceva una volta, trova l’amalgama, una 3-2 perfetta, un quintetto dream team.

La ritmica, innanzitutto. Se la dimenticano tutti quando parlano dei FMac. Mick è uno dei batteristi più sottovalutati, e insieme più originali sulla scena. McVie è un bassista preciso, mentre fa il suo disegna linee di basso melodiche, morbide, riempitive. Christine Perfect in McVie ha studiato piano classico, è fuggita verso il r’n’r, non ha necessariamente radici nel blues ma sa dare alle sue ballate quel tocco di blue, malinconico, che al blues rimanda.

I due frontman sono una miniera di canzoni perfette, e portano una presenza che da subito è definita, potente, iconica, sul palco e nella vita: lui riccio e nervoso, stracarico, chitarra elettrica cattiva suonata (e molto bene) col pollice, bello e impossibile. Lei bionda e leggiadra, una fatina avvolta di veli e pizzi e merletti, che canta di streghe celtiche e volteggia sul palco leggera come un fantasma appena materializzatosi.

Buckingham trova il suono perfetto per far rendere tutti al 110 per cento: siamo in California, intanto, quindi un pop-rock soft il giusto, ma forte ritmicamente, cattivo di elettrica quando serve, piano e hammond qui e là. Lindsay ha il gusto e la capacità di studio non solo per arrangiare e incidere insieme ai due ingegneri del suono Ken Caillat and Richard Dashut, ma sa che la ballate folkeggianti di Stevie e i brani pop di Christine devono essere irrobustiti, di ritmica e di suono. I tre si dividono la scrittura, selezionano solo il meglio, saranno album in cui ogni brano è un potenziale singolo.

Dico “saranno” perché se ne va indicato solo uno la scelta cade su “Rumours”, certamente quello di maggior successo e forse il migliore fra tre ottimi album, ma mi piace pensare a “quei” FMac come i creatori di un trittico, con il precedente “Fleetwood Mac” del 1975, e il successivo, il doppio “Tusk” (1979), 20 brani scritti per la metà dal chitarrista.

In fondo, sono un percorso emblematico di una evoluzione rapida e musicalmente intrigante: un primo album che crea lo stampo, il secondo che lo porta a perfezione, il terzo che butta tutto all’aria e introduce innovazioni sonore e stravolgimenti di arrangiamento: basti dire che la title-track (e primo singolo) è incisa con una Marching Band, la parola vuol dire “zanna”, e dopo quel diluvio di vendite non solo l’album non arriverà mai al numero 1, ma a malapena due singoli entreranno nella top 10.

Se gli altri sono pop purissimo, “Tusk” è l’album sperimentale di un autore pop che vuol uscire dai confini che il successo gli impone. E nonostante sia un album con debolezze e cose riuscite a metà che gli altri due non hanno, e amplifichi ancor più il dualismo fra ballate soft e brani maniacali, al limite della paranoia, merita rispetto proprio per la ricerca di una via diversa per uscire dal cul de sac di un precedente così iper-venduto.

La leggenda che ammanta “Rumours”, e ne fa un album diverso da qualsiasi altro, è il contesto in cui nasce. Quando i FMac entrano in studio, la supercostosa Record Plant a Sausalito, dall’altro lato della Baia di San Francisco, le due coppie sono ormai scoppiate, e il disco diventa la cronaca, neppur mascherata, di un casino sentimentale di proporzioni bibliche.

Rumours vuol dire le voci, i pettegolezzi, quel misto di “si dice” che anticipa quello che sta per succedere davvero, almeno nel nostro caso. Stevie Nicks e Lindsay Buckingham sono in crisi, John e Christine McVie hanno appena divorziato.

Il quinto, ovvero Mick Fleetwood, ha scoperto che la moglie Jenny (la sorella di Patti Boyd, quella di George Harrison e Clapton) lo tradisce col suo migliore amico, diciamo che le Boyd non erano proprio ragazze tranquille, e non è che neanche lui sia troppo sereno. In compenso “consola” Stevie in fuga. Bordello totale.

Le ragazze comunque all’inizio del ‘76 prendono casa in un condominio sul mare, i ragazzi sono ospiti dei bungalow vicini allo studio, e quelle saranno le loro dimore per due mesi. E poi, ricordiamolo, siamo nell’era dell’indulgenza e dell’edonismo cocainomane: nei ricordi di Chris Stone, uno dei proprietari della Record Plant, i Mac portano gli eccessi al loro eccesso, con budget illimitato sprecano tantissimo tempo in studio, arrivano alle 7 di sera, fanno festa fino all’una o alle due, e quando son così fatti che non ce la fanno neanche a stare in piedi, cominciano a registrare.

Ma abbastanza incredibilmente, il risultato è fantastico. Presi in mezzo in questa tempesta perfetta, come la definisce Buckingham, i cinque comunque rimangono concentrati (nei limiti del possibile) e vanno avanti: incredibile esempio di gente che non si parla ma a livello musicale riesce a funzionare (non è poi così raro, eh…), che non vuole interrompere il lavoro su quello che, è chiaro, è l’album della vita.

Diventerà, nel tempo, uno degli album più venduti e premiati di sempre. Molti lo considerano da subito il disco perfetto, in cui ogni canzone, al di là della sua piacevolezza, mantiene la crudezza e l’ansia che ci sta dietro.

Diciamo che con tutto quello che succede a livello personale, gli spunti per i testi non mancano, è l’equivalente discografico di una soap opera, un diario privato aperto al pubblico, senza filtri né censure.

L’eccellenza è data da come riescono a trasformare guai e struggimenti personali (di cui è pieno il rock, anche se nel loro caso coinvolge proprio tutta una band in un ingorgo paradossale) in un disco che possa arrivare a tutti, orecchiabile sulla superficie, e spietatamente drammatico appena sotto. Un disco distonico fra questa superficie solare e i tormenti di cuore sottostanti: un disco radio-friendly che parla di rabbia, recriminazioni e rotture. Fattore insolito e accattivante, direi anzi estremamente attraente, anche in un’era in cui il gossip non è social (pensate adesso…).

I pezzi sono tutti memorabili: “Gold Dust Woman” della Nicks, nelle sue parole una sorta di folk song (“muscolarizzata” da Lindsay) su una relazione alla fine, cocaina a fiumi e ciononostante cercando di farcela. Lo registra alle quattro di mattina scavando dentro la sua profondità emotiva, avvolta totalmente in un velo nero, come quello in copertina, il suo modo di rappresentare la figura di Rhiannon dal disco precedente.

C’è “The Chain”, la catena di unione che nulla può rompere, l’unico brano firmato da tutti, come un talismano contro qualsiasi scioglimento. Due pop songs di Christine, “Don’t Stop” (quella usata nella campagna presidenziale da Bill Clinton) e “You Make Lovin’ Fun” e una ballata romantica, “Songbird”.

C’è un’altra ballata di Stevie, istantaneo e unico singolo no.1 della loro carriera, “Dreams”, anch’essa neanche tanto implicitamente parla della loro storia: «Eccoti di nuovo a dire che vuoi la tua libertà, e chi sono io per tenerti legato? È giusto che tu te la giochi come te la senti/ma ascolta con attenzione il suono della tua solitudine/come il battito del cuore ti farà impazzire/ per quello che avevi e che hai perduto…».

E “quello che l’ha perduta”…?: Lindsay ne scrive tre: “Second Hand News”, “Never Going Back Again”, “You Can Go Your Own Way”, e sono le più funky, cattive anche, e la terza è, a mio parere, il capolavoro assoluto del disco: sopra un pattern ritmico straordinario di Fleetwood tutto giocato sui tom-tom, Buckingham appoggia una grande melodia, chitarre che si intrecciano e Hammond che spazza via tutto, e canta con tutta la sofferenza che c’è in un uomo mollato dalla sua donna, che incidentalmente è anche la cantante della sua band. «Se potessi ti darei il mondo, ma come faccio se non lo vuoi?/ …dimmi perché tutto si è capovolto/ fare le valigie e finire a letto con qualcun altro è tutto quello che hai in mente…Puoi andartene per la tua strada…».

Stevie chiede a Lindsay di levare quella frase, «Mi dava estremamente fastidio che parlasse di me come una che cercava altri uomini, sapeva che non era vero. Ogni volta che sul palco uscivano quelle parole volevo ammazzarlo. E lui lo sapeva, “ti farò soffrire per avermi lasciato”, aveva colpito nel segno». Dall’altra parte: «Conoscevo Stevie da quando aveva 16 anni, ero completamente devastato. E ciononostante, dovevo fare hit per lei. Dovevo fare molte cose per lei che non avevo nessuna voglia di fare. Quindi da una parte ero totalmente professionale, ma la frustrazione e la rabbia sono rimaste lì per anni».

In questo clima estremo, esasperato dalle droghe e dalle pressioni che inevitabilmente hanno addosso, i cinque riescono comunque a portare a casa il disco che si divide (da vincitore) sulle radio americane l’estate ’77 con “Hotel California” degli Eagles, e poi continua oltre, arrivando negli anni a 45 milioni di copie, Grammy per miglior disco dell’anno, inclusione in qualsiasi classifica dei migliori 100 album di tutti i tempi. Un disco che vive al di là di qualsiasi considerazione, ed è embedded di diritto nella storia del rock.

Carlo Massarini - fonte | Linkiesta

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