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Visualizzazione dei post da febbraio, 2022

alt-J – The Dream (2022)

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di  indie-rock Gli Alt-J o li si ama o li si odia. Tra i pochi capaci di due shortlist del Mercury Prize con i primi tre album, e probabilmente gli unici che, con gli stessi dischi, non sono mai riusciti a raggranellare qualcosa di più di un misero 4.8/10 su Pitchfork. È forse il loro strano modo di fare musica che polarizza così tanto l’opinione pubblica, oltre a un successo che premia un progetto musicale che potrebbe, a un primo ascolto, non apparire così accessibile. Dalla parte del trio di Leeds c’è sicuramente coerenza e un suono caratterizzante, sebbene debitore di tutto ciò che c’è stato in passato, primo tra tutti un ‘miscelatore seriale’ come Beck. Folk, pop, elettronica, soul, hip-hop, ma anche world music di varia provenienza, sono mescolati in canzoni coese da una stratificazione creativa quanto inappuntabile, dalla peculiare vocalità del chitarrista Joe Newman, e dall’uso frequentissimo del canto corale. È quanto accade anche in questo ‘The Dream‘, che la band descrive co

Son Volt

Sciolti definitivamente gli Uncle Tupelo, Jeff Tweedy organizza subito il suo progetto personale, Wilco, mentre Jay Farrar sembra incerto sul da farsi, da una parte perché quasi tutti i vecchi compagni restano legati a Tweedy, dall'altra perché deve risolvere i suoi seri problemi con l'alcol, che ne hanno segnato il carattere schivo. Discografia e Wikipedia

Big Thief – Dragon New Warm Mountain I Believe In You (2022)

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 di Stefano Solventi Per quanto mi riguarda il sospetto – o la sensazione, se preferite – che i Big Thief siano una sorta di Adrianne Lenker in versione espansa è cresciuta disco dopo disco, ma è con il lockdown che ho iniziato a pensarlo seriamente. Vale a dire con i due album solisti che la cantautrice di Indianapolis ha fatto uscire nel 2020, e mi riferisco soprattutto allo splendido Songs.  Al di là del fatto che nella band è lei l’autrice pressoché unica di testi e musiche, quando una voce caratterizza così tanto le canzoni – una voce che sembra il suono stesso dell’interno che si rovescia sull’esterno, e viceversa – il pur consistente apporto del gruppo in termini di arrangiamento rischia di apparire accessorio, fatica a imporsi come sostanziale. E invece lo è: in modalità Big Thief le canzoni di Adrianne non solo possono contare su un “guardaroba sonoro” più ricco, ma è come se i colori in più sulla tavolozza consentissero uno sguardo e una direzione più sfaccettati, un vero e p

Respect: come Aretha Franklin divenne la regina del soul

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 di Luca Divelti Sul finire del 1966 Jerry Wexler aveva deciso di portare nella sua scuderia un nuovo talento, cristallino a detta di chiunque, ma fino a quel momento incapace di esprimere tutto il proprio potenziale. La sua Atlantic Records aveva poco da perdere e probabilmente molto da guadagnare nel mettere sotto contratto quella ragazza dalla voce incredibile, che senza troppi rimpianti era stata accompagnata alla porta dalla Columbia, stanca di aspettare che diventasse la nuova Billie Holiday: Wexler non poteva perdere l’occasione di ingaggiare una voce con così tante sfumature, pronta a scalare le vertiginose vette delle ottave più irraggiungibili con la stessa noncuranza con cui sapeva sprofondare nelle note più basse. Così all’inizio del 1967 Aretha Franklin entrava nella famiglia della Atlantic, consapevole di giocarsi l’ultima occasione per dare una svolta alla sua carriera: l’artista ventiquattrenne sapeva che le lancette correvano veloci e che dopo sei anni passati a incide

David Crosby - If I Could Only Remember My Name (1971)

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di Silvano Bottaro Nonostante sia suonato in buona parte dai componenti dei: Grateful Dead, Jefferson Airplane, Quicksilver Messenger Service e da: Neil Young, Graham Nash e Joni Mitchell, If I Could Only Remember My Name è senza dubbio il capolavoro personale e privato di David Crosby . Un album tutto di voci, ma con pochissime parole, come se esprimere pensieri e significati non fosse più possibile e soprattutto non avesse più molto senso. Siamo a San Francisco (California) nel 1971 e mai come in questo momento i “figli dei fiori” o dell’utopia assumono le sembianze di profeti di un nuovo credo, sempre più staccato dalla realtà urbana e sempre più proteso verso un mondo ideale, tanto astratto quanto contradditorio. David ha già scritto delle meraviglie con i Byrds e con i C.S.N.&Y, ma è in questo album che il suo sogno visionario, la sua anima più interna e creativa si esprime al meglio. La più profonda esplorazione del proprio amore per la Natura, la necessità di esplora

Folk Show: Episode 98

Steve Gunn - Nakama (2022)

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 di Gianfranco Marmoro Operazione atipica, quella messa in atto da Steve Gunn per l’Ep “Nakama”, per cinque brani estrapolati dall’ultimo album “Other You” e reinventati con la collaborazione di membri di Mdou Moctar, Circuit Des Yeux, Natural Information Society e Bing & Ruth. Più che semplici musicisti, veri e propri amici (Nakama vuol dire appunto compagni, amici, compatrioti), artisti ai quali Steve Gunn ha affidato le proprie composizioni in attesa di scoprire sfumature inedite che solo un altro occhio può cogliere. Per il musicista americano questo è solo un altro tassello di quel processo di reinvenzione reso palese dalla bellezza mutaforma di “Other You”. In occasione dell’uscita del suo ultimo album, avevamo tirato in ballo nomi come Robert Wyatt, Mark Hollis e la Penguin Café Orchestra, assonanze che apparivano strane riferite a un artista distintosi in un ambito alt-folk abbastanza definito. Quel coraggio, quell’azzardo creativo erano dunque frutto di una visione più amp

Soft Cell

L'incontro fra Peter Marc Almond (1959) e Dave Ball (1959) avviene nel 1978 al Politecnico di Leeds, dove i due frequentano studi artistici. La collaborazione ad alcune performance cabarettistiche si trasforma l'anno successivo nel progetto di elettronica minimale Soft Cell. Dopo un Ep autoprodotto, Mutant Moments, nell'autunno 1980 il duo si esibisce con successo alla seconda edizione del festival Futurama. Discografia e Wikipedia

Animal Collective – Time Skiffs (2022)

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 di Silvio Don Pizzica È dal 2009, anno di uscita del discusso Merriweather Post Pavilion, che non c’era tanta attesa per un album degli Animal Collective, e ora più di allora fremiamo dalla voglia di capire quale sia il reale valore di Panda Bear e soci e il loro ruolo all’interno della storia della musica contemporanea. Se quel disco creò una spaccatura netta tra chi gridava al capolavoro e chi alla grande truffa, questo ha la possibilità di chiarire i dubbi più di quanto non ci sia riuscito il tempo che, a dirla tutta, sembra averci consegnato una manciata di canzoni immortali ma anche tanta robaccia. In Time Skiffs la band di Baltimora sceglie psichedelia in salsa dub, con linee di basso di un certo peso atte a trascinare l’ascoltatore dentro ogni brano e non lasciarlo mai distrarre dal mondo esterno e suoni fluidi che nulla hanno a che vedere con certo rock che strizza l’occhio allo “stupefacente”, come se si trattasse di lisergia, certo, ma non causata da acidi. Il risultato è un

Jimi Hendrix e l’apoteosi psichedelica di All Along The Watchtower

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 di Luca Divelti Quando ascoltò per la prima volta la canzone rimase senza parole: quei pochi versi, così impetuosi e drammatici, lo avevano sconvolto fino a lasciarlo in balìa di un senso di minaccia incombente. Jimi Hendrix era da sempre un grande ammiratore di Bob Dylan, a cui invidiava quella facilità di scrittura che sentiva non appartenergli: per questo, una volta saputo della pubblicazione sul finire del 1967 di un suo nuovo album, aveva cercato di mettere le mani su qualche nastro in anteprima. Era pronto a farsi sedurre come sempre dalla penna del menestrello, ma la sensazione che gli suscitò All Along The Watchtower non aveva precedenti. Sentiva che quella storia così affascinante e visionaria aveva scavato un solco profondo nel suo animo e c’era qualcosa in essa che lo spingeva a riascoltare la canzone di continuo, facendo penetrare quei versi con sempre maggiore intensità. L’affresco pieno di riferimenti biblici strappati al Libro di Isaia e i due protagonisti, il giullare

Gillian Welch - Time (The Revelator) (2001)

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di Silvano Bottaro A veder la copertina non attira per niente questo album della Welch. Seduta di traverso su un divano da quattro soldi, lo sguardo se ne va da un'altra parte e il vestito a fiori sembra un insulto, voluto e volontario, a chi insiste ancora sull'importanza del look, dell'apparire, del mostrarsi. Nessuna concessione, neanche uno sfondo a nascondere quella che sembra la parete di una baita dietro di lei. Dentro, è lo stesso: i suoni sono rarefatti, acustici e legati alla sonorità della chitarra e del banjo, oltre alla voce di Gillian Welch, che però è un capitolo a parte. Una struttura scheletrica, minimale, scarnissima. Poco importa: in Time (The Revelator) scorrono bluegrass, old time, ballate, canzoni che sembrano leggere leggere nella strumentazione, ma evocano paesaggi gotici. Dieci canzoni e la musica è quella: prendere o lasciare. Spiccano, sopra le altre, Revelator, My First Lover, Elvis Presley Blues (che è uno dei più bei omaggi all'onni

Folk Show: Episode 97

Baba Sissoko with Jean-Philippe Rykiel, Madou Sidiki Diabate, Lansiné Kouyaté – Griot Jazz (2021)

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di Alessio Surian Una prima chiave d’accesso al nuovo album di Baba Sissoko sono i brani “Abderrahmane” e “Fatoumata”, dedicati ad Abderrahmane Sissako e Fatoumata Diawara, nonché il brano dedicato a Damon Albarn e intitolato “Kamissoko”, il condottiero fondatore dell’impero Mandé il cui nome è stato dato in Mali ad Albarn. I quindici brani raccolti in “Griot Jazz” vengono dalla partecipazione di Baba Sissoko a “Le vol du Boli”, spettacolo messo in scena la prima volta ad ottobre 2020, nato dalla collaborazione fra Damon Albarn ed il regista Abderrahmane Sissako, che hanno coinvolto Fatoumata Diawara, insieme a musicisti e cantanti maliani, congolesi e burkinabé, in un’appassionata narrazione del continente africano seguendo Boli, “feticcio” magico. Lo spettacolo sarà di nuovo in scena a Parigi, al teatro Châtelet ad aprile e maggio 2022. Il lavoro di preparazione si è rivelato una felice occasione di incontro fra lo ngoni e il tama di Baba Sissoko, residente in Italia, il balafon di L

The Smiths

Steven Patrick Morrissey nasce a Manchester il 22 maggio 1959, figlio di genitori presto divorziati e vittima delle inquietudini e delle angosce sociali della città inglese (turbe che affioreranno presto nelle sue canzoni). Nei primi anni '80 la piccola fama di poeta e scrittore (collabora anche al "Record Mirror", con lo pseudonimo di Sheridan Whitehead). Discografia e Wikipedia

Beirut - Artifacts (2022)

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di Valerio Di Marco L’ultimo album di inediti dei Beirut risale a pochi mesi prima dell’inizio della pandemia e anche il titolo, Gallipoli, richiama in qualche modo quei sapori marittimo/vacanzieri che in questi ultimi due anni ci siamo perlopiù negati. Peraltro, già allora l’afflato del progetto capitanato da Zach Condon virò verso una maggiore cupezza. Che avvertisse la tempesta in arrivo? Ora, dopo due anni di mascherine e lockdown, per la band del Nuovo Messico non è ancora tempo di un nuovo lavoro in studio e allora la stessa formazione ci regala un compendio della sua carriera in parallelo raggranellando in una raccolta composta da un poker di vinili (i cui otto lati in totale sono stati nominati per dare indicazioni sulle tracce contenute) diciassette anni di demo, rarità, inediti e b-side. Inutile dire che gli amanti dell’indie anni ’00 che si sbrodolavano al seguito dei vari Sufjan Stevens, Patrick Wolf, Bon Iver e Get Well Soon troveranno pane per i loro denti in questa retro

B. B. King: il figlio dei campi che divenne re del Blues

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di Luca Divelti Quando nasci in una piantagione di cotone del Mississippi, cresci senza padre e madre e sopporti il pesante fardello di un’esistenza di sacrifici e segregazione, non puoi non cercare una via di fuga. Riley B. King, come tanti altri afroamericani nella sua condizione, desiderava qualcosa di meglio per sé, che non dovesse per forza sfiorare continuamente le storie di schiavitù raccontategli dalla nonna: aveva imparato fin da piccolo che a quelli come lui il Sogno Americano di solito riservava solo la feroce e schiacciante indigenza dei campi del sud, condita con la crudeltà dei bianchi sempre pronti a linciare e impiccare per uno sguardo sbagliato. Ma come poteva sfuggire a una vita da mezzadro? Forse poteva rifugiarsi nella musica e magari trovare qualche soldo per evadere dalla vita dei campi. La musica lo aveva sempre affascinato e attratto, portandolo da bambino a cantare nel coro gospel della chiesa di Indianola e in seguito a imparare i primi accordi di chitarra gra

Phosphorescent - Muchacho (2013)

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di Silvano Bottaro Devo sinceramente ammettere che i Phosphorescent sono stati la più bella scoperta di questo duemilatredici, anche se questa band statunitense originaria di Athens in Georgia è attiva da un decennio e questo Muchacho è il loro sesto album. Ascoltati per caso in una radio on-line, fin dalle prime note ho capito di aver trovato uno di quei gruppi che ti rimangono dentro, e così sono andato alla scoperta dell'intero album di questo ennesimo gruppo. Traccia dopo traccia erano sempre più soddisfacenti, non chiedetemi perché le ballate di Matthew Houck colpiscano la mia emotività in maniera così forte e lascino un segno che decine di altri musicisti non hanno capacità di incidere nel profondo neppure dopo decine d canzoni. Chiamatelo "colpo di fulmine" se volete. I Phosphorescent se la cavano proprio bene sia dal punto di vista musicale che vocale: riescono ad imprimere ai loro pezzi pathos e sensibilità e l'ascolto è stimolato da diverse contaminazio

Folk Show: Episode 96

John Mellencamp – Strictly A One-Eyed Jack (2022)

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di Lorenzo Donvito Avremmo pensato convinti che John Mellencamp non si filasse più di tanto il Boss: troppo dentro gli schemi del mainstream, troppo buonista e corretto, il classico buon ragazzo americano agli antipodi dai suoi modi di fare. Little Bastard, non per nulla, è uno dei suoi nomignoli e non sarà certo per le buone maniere a cui ha abituato i musicisti con cui suona o il pubblico che assiste ai suoi concerti. Se non fosse la serata giusta, sarebbe capace di mollare il palco dopo un’ora e mandare tutti a quel paese... Mellencamp ci ha abituato a storie così, ma anche a una musica senza fronzoli, decisa, tagliente come i testi che la accompagnano, pervasi di un romanticismo molto più spiccio rispetto a quello del fratello maggiore Bruce (sono solo due anni di differenza) che in questo “Strictly A One-Eyed Jack” partecipa in tre pezzi. John stesso ha dichiarato di essere stato sempre considerato "il Bruce dei poveri", probabilmente per l’attivismo sociale (Mellencamp

Patti Smith

Patti Smith (1946) è artista, pittrice, scrittrice e poetessa, e inoltre cantante e musicista di successo. Originaria di Chicago, si stabilisce a Pitman, nel New Jersey, con la famiglia. Durante gli anni della scuola si innamora della black music e di Bob Dylan, dà alla luce un bimbo ancora giovanissima e si rifugia a Nwe York, nel 1967. Discografia e Wikipedia

The Dream Syndicate - What Can I Say? no regrets... Out of the Grey + live, demos & outtakes (2022)

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di Silvia Cinti I Dream Syndicate sono una band statunitense attiva dagli anni ’80. Ne hanno fatti di dischi incredibili, uno ad esempio senza ombra di dubbio è “The Day Of Wine And Roses”, era il 1982, e il progetto di Steve Wynn si imponeva con energia sulla scena alternativa californiana, la cosiddetta Paisley Underground – una fucina di suoni dalla psichedelia al punk sino al rock –  di Los Angeles. Nel corso degli anni il musicista Steve Wynn si è dimostrato una delle persone più entusiaste, vitali ed umili, una rarità in un ambiente competitivo come questo. Steve Wynn non ha mai rinunciato alla propria musica e soprattutto non ha mai messo da parte i Dream Syndicate un’avventura di una vita  a cui ha sempre tenuto molto. Nel 2022 la band capitanata dal cantante e chitarrista Wynn ha inaugurato il nuovo anno con una nuova collaborazione con l’etichetta discografica, la Fire Records, con cui ha pubblicato il 14 gennaio un cofanetto triplo intitolato: “What Can I Say? No regrets…Out

Muddy Waters: un astro nero nella storia del blues

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di Luca Divelti Se chiedete a un bluesman cosa sia effettivamente il blues, questi vi risponderà che è soprattutto un sentimento: sentirsi “blues” indica infatti uno stato d’animo che porta alla malinconia, alla tristezza, allo sconforto, perché chi scrive e canta blues sa cosa vuol dire affrontare la dura quotidianità della vita. Se c’è un genere musicale in grado di catturare tutta l’angoscia, la disperazione e la speranza del popolo afroamericano vittima di secoli di schiavitù e vessazioni, questo è sicuramente il blues, che sorse lentamente sul finire del 1800 dagli stati del sud per poi estendersi a tutte le comunità di colore degli Stati Uniti. Il blues veniva suonato da musicisti solitari, che si accompagnavano con la chitarra acustica durante le feste tenute durante il fine settimana nelle piantagioni. In una di queste, a Stovall, nel profondo Mississippi, viveva con la nonna McKinley Morganfield: persa la mamma precocemente e con un padre lontano, McKinley era un bambino curio

E T I C H E T T E

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