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Visualizzazione dei post da gennaio, 2023

Dash 7 - Wilco

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 di Ettore Craca E’ il destino delle canzoni. Si incollano a determinati momenti della nostra vicenda personale come francobolli e non le stacchi più di li. Quel momento è quella canzone. Quella canzone è quel momento. Inscindibili Certe canzoni sono più sfortunate di altre e il loro destino è appiccicarsi a momenti particolarmente bui, momenti che non hai piacere a ricordare, ma sono loro ad accompagnarti mentre attraversi l’ora oscura e sono loro a cullarti, confortarti, sorriderti o prenderti a sberle. Da ventun giorni sono agli arresti domiciliari. E’ iniziato tutto l’ultimo giorno di Gennaio, qualche linea di febbre, una rarità per quanto mi riguarda non soggetto come sono ad influenze stagionali. Già questo indizio è stato sufficiente a mettermi in preallarme. Un tampone antigenico il giorno dopo con la sua risposta di negatività mi tranquillizza relativamente. Il malessere fisico c’è, è innegabile. Mia figlia si accompagna a me nel fine settimana, provvedo a mantenerla a distanz

Rufus Wainwright - Poses (2001)

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Nascere in una famiglia di musicisti è il presupposto per i dischi di questo mese: nel caso di oggi, Rufus Wainwright ha addirittura entrambi i genitori famosi musicisti. Il padre, Loudon III, uno dei più grandi personaggi del folk rock canadese (ascoltate se potete il live A Live One del 1979 o lo splendido Fame And Wealth del 1983) e la madre Kate McGarrigle gli danno la spinta per iniziare dubito a innamorarsi della musica. Suona il piano già a sei anni, è adolescente quando, insieme con la madre, la zia Anna e sua sorella Martha suonano in un gruppo, McGarrigle Sisters And Family, con tour in tutto il paese. Ha quindici anni quando una sua canzone, I’m Running, è presente in un film canadese, un episodio della serie fantasy intitolata Tales for All, che gli vale la nomination per il Genie Awards per la migliore canzone originale e per il Juno Award, l’oscar della Musica canadese nel 1990, come vocalist maschile più promettente. Tuttavia Rufus sviluppa quasi in contrapposizione con

Van Halen

Autori di un heavy metal patinato, di grande effetto e spettacolarità soprattutto in concerto, i Van Halen sono uno dei maggiori fenomeni commerciali emersi tra gli anni Settanta e Ottanta. I fratelli Edward (1955) e Alex (1953) Van Halen, si trasferiscono dall'Olanda in California nel 1968. Crescono a Pasadena e iniziano ad ascoltare rock abbandonando la musica classica (entrambi studiavano il piano) verso cui erano stati indirizzati dal padre, musicista jazz dilettante. Discografia e Wikipedia

Storia della musica #24

  La Disco Il suono della disco è essenzialmente funky: un funk dal beat costante e regolare, (spesso scandito dall’hand-clapping mutuato dal gospel), in cui le voci degli shouters sono sostituite da voci femminili angeliche e allo stesso tempo provocanti, e il cui suono è ammorbidito da un abbondante utilizzo di archi, ma pur sempre funk: il groove grasso del basso e il suono stridulo di chitarra non lascia dubbi. Il motivo è molto semplice: il fenomeno della disco nasce con l’apertura di locali gay a New York destinati esplicitamente al ballo, le discoteche da cui il fenomeno prende il nome, in cui venivano selezionati i pezzi soul e funky più groovy. Ad un certo punto i pezzi funky-soul cominciano ad essere prodotti con lo scopo preciso di essere suonati nelle discoteche e a quel punto il suono la disco può dirsi nata. Ben presto le discoteche cessano di essere appannaggio esclusivo della comunità gay divenendo fenomeno di massa: il fenomeno più commerciale è di breve durata, limita

John Cale – Mercy (2023)

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di Antonio Pancamo Puglia “Io una leggenda vivente? È come una saponetta in una doccia senz’acqua: non serve proprio a niente. Fare la leggenda vivente è un modo precario di guadagnarsi la vita. È una fuga davanti alle responsabilità”. Ci eravamo lasciati con queste parole undici anni fa, in un’intervista concessa allo scrivente (e pubblicata sul mensile JAM, ottobre 2012) in promozione di Shifty Adventures in Nookie Wood, allora suo ultimo capitolo in studio prima di questo Mercy (se si eccettua M:FANS, del 2016, rework radicale del classic album Music For a New Society). Pur avendone i titoli, al sig. John Cale, classe 1942 e un discreto curriculum alle spalle, non è mai interessato davvero vivere di gloria riflessa. Se c’è un minimo comune denominatore in una carriera che ha attraversato sessant’anni di rock e dintorni, è l’aver tenuto fede, sempre, all’imperativo categorico impostosi sin dagli inizi: provare, riprovare, sovvertire, utilizzare i linguaggi musicali sottomano alla cos

Jack Bruce - Out Of The Storm (1974)

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di Silvano Bottaro Capita di tanto in tanto di ascoltare vecchi album di cui si aveva perso le tracce. Quando succede e quando il disco comunica qualcosa non appena comincia a suonare, quando uno si sente partecipe delle emozioni dell'artista, anche dopo aver ascoltato un solo brano hai la certezza che tutto il resto del disco sarà buono. Ho ascoltato per la prima volta Out Of The Storm di Jack Bruce e mentre la sua voce intonava le prime note di Pieces of Mind mi sono reso conto di fare la conoscenza dei più bei dischi di una certa vena del rock blues inglese al pari di Rock Bottom di Wyatt. Le esperienze, l'ispirazione, la scelta intelligente di certe note, la voce robusta e ricca di soul, rivela che Jack è un musicista di una categoria a parte, quella che Bob Fripp chiamò dei "maestri". Dopo l'esperienza abbastanza monolitica di Wes, Bruce e Laing, Jack ha lavorato per un anno alla realizzazione di questo album con il solo aiuto di Steve Hunter (abilmente a

All These Things That I’ve Done - The Killers

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 di Mirko Tondi Certi pensieri si palesano la mattina, appena ti svegli, come se avessero avuto tutta la notte per raggiungerti e aspettarti all’angolo. E certe mattine hai una canzone in testa che ti fa da sottofondo, non sai perché, ma c’è, come se il tuo cervello si fosse autosintonizzato su determinate frequenze. Eccomi là: quello sono io e queste sono tutte le cose che ho fatto, mi dico. È una versione di me che è depositata nel passato, una figura sempre più evanescente, quasi astratta, mentre gli oggetti, i libri letti e quelli che non leggerò mai (per lo più dozzinali raccolte comprate in edicola, con la grafica standardizzata e i numerini crescenti sul dorso), i dischi ascoltati, le fotografie incorniciate sulle mensole, i quadri appesi alle pareti, tutto questo ammasso di materia e ricordi – evidenza, al contrario, di qualcosa di tangibile – è qui, davanti ai miei occhi. Voglio splendere nel cuore degli uomini C’è sempre un lieve scarto tra chi siamo e ciò che abbiamo fatto,

Belle and Sebastian - Late Developers (2023)

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In questi 27 anni di onorato servizio, la parabola dei Belle And Sebastian ha già più volte attraversato fasi di grande rigogliosità creativa. Si pensi al primo anno di vita del collettivo scozzese, il 1996, quando pubblicò due capolavori come ‘Tigermilk‘ e ‘If You’re Feeling Sinister‘ a distanza di soli 5 mesi, o ai tre EP usciti nel 1997, o a gli altri tre arrivati tra dicembre 2017 e febbraio 2018. Analogamente, anche le sessioni di registrazione che hanno dato vita a ‘A Bit Of Previous’, pubblicato lo scorso maggio, celavano ulteriori sorprese, raccolte in questo ‘Late Developers‘, che dagli stessi canali ufficiali del gruppo viene definito il suo “companion album“. Una breve nota della Matador Records aggiunge un’ulteriore definizione: “il cugino baciato dal sole (…) un abbraccio alle inclinazioni più luminose della band“. Una chiara indicazione che non si tratta di una raccolta di seconde scelte, ma che è stata una precisa scelta estetica a ripartire i brani tra le due opere. E i

Ritchie Valens

Con ascendenze messicano-indiane, ma nato a Los Angeles, Richard Valenzuela (1941 - 1959) cresce nella San Fernando Valley, alla periferia nord della metropoli. Dall'età di nove anni comincia a suonare la chitarra, poi, frequentando la Pacoima Junior High School, forma con alcuni compagni il gruppo dei Silhouettes e comincia a comporre canzoni. Discografia e Wikipedia

Storia della musica #23

 Il Funk Se già in un capolavoro di soul deviato come “Papa's Got a Brand New Bag” (1965) si possono intravedere i segni distintivi del funk è “Get Up (I Feel Like Being A) Sex Machine”, del 1970, a codificare definitivamente il genere con una grassa linea di basso a fornire il riff principale, ritmi sincopati e un suono stridulo di chitarra passata attraverso il wah-wah a completare il suono; la struttura dei pezzi funk è più libera, vicina all’improvvisazione che si era un po’ persa col rhythm’n’blues ma da sempre è nel dna della musica afroamericana, lunghe jam simile a quelle che prendevano piede nel rock psichedelico ed un ruolo fondamentale di divenire subito musica della controcultura nera. Funky era la colonna sonora di “Sweet Sweetback's Baadasssss Song”, primo film indipendente di Melvin Van Peebles che inaugura il filone della cosiddetta blaxploitation (oltre a lanciare gli Earth, Wind & Fire, esponenti del funk a più alta gradazione pop), filone di film minori g

Iggy Pop - Every Loser (2023)

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 di Fabio Marco Ferragatta  Il 2016 sarebbe dovuto essere l’anno della fine di Iggy Pop: finiti gli Stooges e licenziato il per me poco riuscito “Post Pop Depression” l’Iguana stava per tenersi sì la corona ma chiudendosi alle spalle le porte del reame non prima di un dito medio ben visibile per tutti. Ma la muta di cani che ha al posto del cuore sembrava scalpitare in petto, la testa in ebollizione e l’ugola desiderosa di squagliare qualche altro microfono e ci siamo ritrovati per le mani “Free”, un disco spiazzante solo se non avete mai ascoltato “Avenue B”, ma comunque sbalorditivo ma, soprattutto, bellissimo. Scocca il 2023, ancora qualche mese e gli anni sul groppone saranno 76 eppure al Re sembra non interessare assolutamente nulla. Si sfila la maglietta sfoggiando il suo fisico tutto nervi e sbruffonaggine, entra in studio ed è pronto per fare a brandelli tutti i wannabe punk di ogni età, che siano essi coetanei o giovani non fa differenza. La classe innata di colui che scrisse

Saturday Night - Devendra Banhart (2016)

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Ci sono biografie che sembrano scritte da uno sceneggiatore di Hollywood, perché la verità, a un certo punto scivola nella leggenda. La realtà: Devendra Banhart nasce nel 1981, in Texas. Quando i genitori divorziano, la madre lo porta con sé a Caracas, dove, tra un omicidio e l'altro, si lascia avvolgere da quel gusto ispanico che a volte farà capolino nelle sue canzoni. Il giorno in cui suo padre gli regala una chitarra, Devendra viene lasciato dalla ragazza, e da questa folgorante coincidenza Devendra capisce che la musica è in qualche modo sempre legata alla sofferenza o al distacco. (M. Cotto - da Rock Therapy)

John Hiatt - Mystic Pinball (2012)

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di Silvano Bottaro Sono trascorsi quasi quarant'anni dalla sua prima pubblicazione "Hangin' Around the Observatory" targata 1974, in mezzo ci sono vent'uno dischi, alcuni memorabili come Bring the Family del 1987 e il successivo Slow Turning del 1988, altri ottimi come Perfectly Good Guitar, Crossing Muddy Waters, Master of Disaster e The open Road , alcuni sufficienti, tra gli ultimi Same Old Man del 2008. Ora, dopo la sua ultima prova Dirty Jeans and Mudslide Hymns dell'anno scorso, disco che non ho avuto il piacere di ascoltare, ritorna con questo Mystic Pinball ed è ancora buona musica. Hiatt è un grande scrittore, le sue canzoni ne sono la testimonianza. La sua peculiarità è proprio quella di adattare il suono, le note alle parole dei testi che tanto facilmente e soprattutto bene gli riescono. Detto questo è chiaro che la musica non diventa primaria nel suo modo di comporre. Ha il grande dono di saper creare personaggi, di saper risaltare le

All Tomorrow’s Parties - The Velvet Underground & Nico

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 di Nico Sambo La prima volta che ho ascoltato questo pezzo fu a casa di un amico, al ritorno da un interrail dopo la nostra “maturità”. Era il ’98 e durante quel viaggio lui aveva preso il cd alla Virgin di Parigi. All’epoca i prezzi attaccati ai cd avevano una banda magnetica che faceva suonare l’allarme se uscivi dal negozio senza averli pagati, ma togliendo il prezzo e lasciandolo lì da qualche parte uno si poteva mettere il cd nello zaino e uscire indisturbato (a meno di qualche telecamera che avrebbe potuto rivelare all’occhio di un guardiano tutta la manovra). L’eccitazione era molto alta e un cd tira l’altro, così alcuni dei miei compagni di viaggio ne presero diversi, evidentemente troppi perché quando si avviarono all’uscita due vigilantes si misero davanti alla porta sbarrando loro la strada. Fu così che si ritrovarono in una stanzetta grigia nei sotterranei della Virgin in un’atmosfera che raccontata dopo anni è arrivata ad assumere le sembianze di un interrogatorio della S

Meg Baird - Furling (2023)

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di Gianfranco Marmoro A volte capita che l’immaginario della musica folk entri prepotentemente nel percorso della storia del rock. Sono episodi fugaci ma che lasciano il segno, anche se spesso le cronache tendono a oscurarne il valore. Nonostante tutto, sono in molti quelli che non hanno dimenticato l’esordio di Greg Weeks, Meg Baird e Brooke Sietinson sotto il nome di Espers. Mentre si avvicina il ventennale della sua uscita, l’estatica e incontaminata purezza dell’esordio della folk-band americana non ha perso un briciolo di fascino. Nel frattempo, Greg Weeks ha scelto la carriera di professore d’inglese mentre di Brooke Sietinson si sono perse le tracce; solo Meg Baird è ancora in prima linea, nonostante una carriera discografica discontinua eppur non priva di delizie. A partire dall’esordio solista del 2007, “Dear Companion”, la cantautrice americana ha ridimensionato le pretese, affidando a ballate tanto misurate quanto ispirate una carriera non priva di alti (“Seasons On Earth”)

Steve Vai

Nativo di Long Island, Steve Vai (1960) studia al Berklee College of Music e ancora giovanissimo suona fusion con il complesso dei Morning Thunder. Un demo di quella band viene inviato a Frank Zappa, che lo giudica bene e di più ancora apprezza le trascrizioni di alcune sue complesse partiture che Vai gli allega. Discografia e Wikipedia

Storia della musica #22

 Il Glam Il glam è un fenomeno principalmente inglese che vive non solo sotto il profilo musicale, per molti versi come derivazione del primo rock’n’roll (T. Rex e Bowie) e in misura minore dall’hard rock, ma anche, e soprattutto, sotto quello scenico: costumi, trucco e lustrini servono a costruire identità fittizie e creare un’aura di ambiguità e mistero (?) intorno al cantane, giocando da una parte con abbondanti richiami alla fantascienza (basti pensare alla saga di Bowie-Ziggy Stardust) e dall’altro gioca con l’ambiguità sessuale. E proprio quest’elemento impedirà al fenomeno di attecchire nell’America puritana, con un’unica eccezione: le New York Dolls di Johnny Thunders, che hanno però un suono completamente diverso, che anticipa quello che di lì a poco verrà definito punk. L’invenzione del glam va attribuita a Marc Bolan che coi T. rex, già titolari di una serie di dischi folk-rock, nel 1970, prima con l’omonimo “T. Rex” e poi in modo ancor più netto con “Electric Warrior”, del

Eric Clapton - Just One Night (1980)

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Due serate consecutive, il 3 e il 4 dicembre del 1979. Nello stupendo scenario del Nippon Budokan, il meraviglioso complesso costruito per le Olimpiadi del 1964 e diventato il regno delle arti marziali, anche nell’edizione di Tokyo 2020. Ma anche uno dei teatri più magici per i concerti, con decine di dischi registrati nella sala più grande del complesso, un gioiello di acustica da 14 mila posti. In quelle serate del dicembre 1979, uno dei miti del rock è in tour dopo l’uscita del suo ultimo disco, Backless, con una nuova formazione ad accompagnarlo. Quel mito è Eric Clapton. Quello è un periodo di ennesima rinascita per Slowhand (nomignolo che non ha nulla a che fare con la sua velocità di esecuzione delle note, che chiunque lo abbia mai sentito in uno dei suoi capolavori potrebbe capire al volo, ma per la maniacale cura con cui accordava le corde delle sue chitarre): dopo l’ennesimo periodo di dipendenza da alcool e droga, finalmente è disintossicato, sta bene fisicamente e ha un est

Redemption Song - Bob Marley (1980)

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Questa canzone mi insegue da anni. Ovunque vada, prima o poi c'è qualcuno che la canta, per strada, in un hotel, oppure esce da una radio o da uno stereo. Mi è capitato anche nei luoghi più impensabili: la spiaggia di Copacabana, a Rio; di ritorno dai templi di Angkor Wat, in Cambogia; in un mercato di Ho Chi Minh, in Vietnam. Sono portato a pensare che ci sia sempre una ragione, se qualcuno ti rincorre, anche se ogni volta tu ti lasci prendere.  Redemption Song è il testamento di Bob Marley, il punto in cui le visioni del reggae incontrano la purezza del folk, il luogo dove lo sguardo del condottiero incontra la consapevolezza che il cammino è finito, troppo presto per chiunque, figuriamoci per un profeta.  (M. Cotto - da Rock Therapy)

Patti Smith - Banga (2012)

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di Silvano Bottaro Tirando in ballo il cane di Ponzio Pilato chiamato "Banga" (dal libro "Il maestro e Margherita" di Bulgakov), la nostra sacerdotessa del rock pubblica il suo undicesimo album. Disco di inediti (a parte un brano) che esce a otto anni da Trampin' e a cinque da Twelve, album di solo cover. Patti Smith pubblica un'album di canzoni, quelle classiche, quelle che seguono la "forma" vera, ballate che raccontano "storie" di persone, fatti e tragedie personali e sociali. Tra i brani infatti, troviamo riferimenti che vanno dal terremoto in Giappone alle scomparse di Amy Winehouse e Maria Schneider. Le dodici canzoni che compongono l'album sono costruite su testi importanti, sono riflessioni ed esperienze, cariche di poesia e di reale vita quotidiana. Dodici canzoni per dodici tributi, dodici omaggi a persone, amici, personalità e popoli che in qualche modo hanno colpito i sentimenti della poetessa e che poi ha mess

Fisherman’s Blues - The Waterboys

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 di Tommaso Zanardi I wish I was a fisherman navigating the lockdown Comincio subito a dire che, come per i libri, non siamo noi che scegliamo le canzoni ma sono loro che scelgono noi. E infatti questa canzone, “Fisherman’s Blues” de The Waterboys, mi catturò, come del resto tutto l’album omonimo in maniera casuale. Non fui io a scoprire questo LP volontariamente durante le mie ricerche musicali, ma fu mio zio, collezionista di vinili, a regalarmelo. Capii subito dal primo ascolto che c’era qualcosa di speciale, di nostalgico, di magico, forse dovuto alle influenze di musica tradizionale irlandese che amo pazzamente come del resto tutta l’isola. Era da parecchio tempo che non ascoltavo quell’album. Durante il duro periodo della quarantena in cui, oltre ad essere scarico fisicamente ero soprattutto scarico emotivamente e psicologicamente, decisi, dopo quasi due mesi di totale apatia culturale e musicale, di ritornar a riveder le stelle, di ritornare alla mia passione. Anche da condivide

Santana - Lotus (1975)

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Il viaggio nei dischi memorabili registrati in Giappone oggi fa tappa a Osaka, che durante gli anni ‘70 nel suo Festival Hall fu sede di importantissimi concerti rock e non solo, basta ricordare i due mitici che tenne Miles Davis il primo Febbraio del 1975, i quali divennero poi due dei suoi più fantasiosi dischi, Agharta (lo show del pomeriggio) e Pangaea (quello della sera). Il concerto di oggi invece si tenne all’Osaka Kōsei Nenkin Kaikan, un meraviglioso teatro di 2400 posti. A suonare quella sera era un’artista che stava promuovendo il suo ultimo disco, Caravanserai, scritto dopo un periodo di rinascita in India con gli insegnamenti del Maharishi Mahesh Yogi sulla meditazione trascendentale, che gli riaprirono la mente e il cuore. Questo artista è il superbo chitarrista Carlos Santana. Caravanserai (del 1972) e il successivo Welcome (1973) segnano la strada intrapresa dal musicista messicano verso una musica che fonda rock, jazz e i ritmi latini: per questo amplia la formazione a

Uriah Heep

Formazione inglese hard rock di buon successo ma sempre trattata con grande ostilità dalla critica, soprattutto americana (celebre negli anni un'affermazione di un addetto ai lavori: "Se mai questo gruppo avrà successo, mi suiciderò"), gli Uriah Heep nascono dalle ceneri di due formazioni salite alla ribalta intorno al 1965: i Gods e gli Spice. Discografia e Wikipedia

Storia della musica #21

 Il power pop  Tra i tanti filoni revivalistici degli anni ’70 il power pop è probabilmente uno dei più seminali, per l’influenza esercitata sulla musica cosiddetta alternativa, e allo stesso tempo uno dei più trascurati da pubblico e critica. Tratti distintivi del genere sono la passione per la canzone da tre minuti e un suono che è un cocktail dalle dosi più o meno variabili di jingle-jangle byrdsiano, armonie vocali ereditate da Beatles e Beach Boys e una componente hard rock più o meno spiccata (spesso mutuata dal suono degli Who). Dove il movimento roots andava a ripescare i suoni della tradizione pre-British Invasion il power pop proprio lì va a parare, immergendosi idealmente negli anni d’oro dei Beatles, del folk rock e del pop californiano. Pionieri del genere sono, nei primi anni ’70, Big Star, Raspberries e Badfinger. Sfortunatissimi in vita e destinati ad un culto postumo smodato, i primi si formano sulle ceneri degli Ice Water di Chris Bell nel momento in cui al chitarrist

Michel Petrucciani\Steve Gadd\Anthony Jackson - Trio In Tokyo (1999)

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Le Olimpiadi giapponesi a Tokyo sono un’occasione troppo ghiotta per non scrivere di musica che ha a che fare con la capitale nipponica. Perchè c’è un legame profondo e singolare con certi posti per i musicisti, e Tokyo e il Giappone è uno di questi. Vuoi perchè c’è sempre l’aria esotica del Paese del Sol Levante, ma soprattutto perchè il pubblico giapponese è meraviglioso e competente, sia che ci sia da pogare sotto le transenne di un concerto rock sia che ci sia da rimanere in silenzio in un meraviglioso teatro ad ascoltare un concerto jazz. Uno dei più famosi, se non il più famoso album del rock, il mitico Made In Japan dei Deep Purple, è solo la punta dell’icerberg del rapporto musica popolare-Giappone, iniziato tra l’altro con una formidabile tournee dei Led Zeppelin nel 197, piena di leggende (tra cui un litigio sul palco tra Plant e Bonzo Bohnam, e una serie di registrazioni che Page non considerò di qualità e che furono scartate). Ma voglio iniziare la serie dei dischi di Agost

Smooth Operator - Sade (1984)

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Sarà la voglia di esotismo o il perfetto mélange di jazz, pop e suggestioni latine; sarà la bellezza formato mignon di Sade Adu, padre nigeriano e madre inglese; sarà la voce suadente e sensuale che flirta al primo taglio di luna. sarà probabilmente un insieme di tutte le cose, ma il successo di Sade è di dimensioni inattese e sorprendenti: 75 milioni di copie vendute nel mondo. Musica per serate in casa con pochi intimi, vagamente rètro, dove la trasgressione arriva sempre dopo il sano corteggiamento. Nessuno si strappa i vestiti con Smooth Operator, però capita spesso che alla fine dei giochi, prima di salutare, qualcuno senza vestiti rimanga. (M. Cotto - da Rock Therapy)  

Under The Bridge - Red Hot Chili Peppers

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di Giampiero Ciampaglia Suona la sveglia, intontito ma con idee chiare sulla mattinata. Litrata di caffè, Red Hot, doccia; una sequenza vincente. Lato A: “The Power of Equality” fa risonanza con il bombardamento che avevo in testa; un’altra notte di cui non ricordavo nulla ma con amici che non dimenticherò mai aveva presentato subito il suo conto. Meglio il lato B: “Blood Sugar Sex Magik” ha il suo perchè in qualsiasi circostanza e poi a seguire “Under the Bridge” , “Naked in the Rain”, etc.  più conciliante con post sbronza “Take me to place I love, take me all the way… lonely as I am… Hard to believe that I’m all alone” Eh si difficile a credersi, sono solo? No di certo, amici, famiglia, ragazza… no non lo sono. Ma allora perché mi sento solo? Ma no è solo che sono un pò solitario, io sono l’allegro malinconico con un carattere da orso così come mi conoscono tutti, tutto qui. E se provassi a sorridere? Io non sorrido mai. No non avrebbe senso, perché dovrei farlo? E poi… cambierebbe

Weather Report - Live In Tokyo (1972)

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Le storie musicali che ci porteranno per tutto Agosto in Giappone alla scoperta di alcuni dei dischi più belli registrati lì, in omaggio alle meravigliose Olimpiadi appena trascorse, oggi fa tappa allo Shibuya Public Hall: lo splendido teatro inizialmente fu costruito per l’altra Olimpiade ospitata dalla capitale nipponica, quella del 1964, dove si svolsero le gare di sollevamento pesi. Ma la storia di oggi ci porta in una fredda serata del gennaio del 1972, quando una band jazz che stava scompaginando le carte del genere era in Giappone per una tournee attesissima, con le sei date già tutte esaurite. Quella band era formata dal tastierista Josef “Joe” Zawinul, di origine austriaca, dal sassofono di Wayne Shorter, dal basso di Miroslav Vitouš, che è nato in Cecoslovacchia, dalla batteria di Eric Gravatt e dalle percussioni di Dom Um Romão, brasiliano. Insieme formavano un gruppo che stava dando una scossa, è proprio il caso di dirlo, al jazz innescando in maniera ancora più radicale

E T I C H E T T E

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