Rings Of Saturn - Nick Cave & The Bad Seeds

 di Gianluca Bindi

La domenica la passava in casa, ormai da sette anni quasi. Aveva un soggiorno grande e areato, con un’ampia finestra che sporgeva dalla collina verso la città sottostante. Un tappeto polveroso e degli scaffali con libri; una poltrona. Durante quelle giornate leggeva circa un centinaio di pagine e fumava trenta sigarette, intervallate da sguardi al di là del vetro dalla durata indefinita.
Staccò gli occhi dalla carta, prosciugando con vigore la sigaretta numero sedici. La spense nel portacenere e rilasciò catrame nell’aria. Lo sguardo poi si perse sui castagni dalle foglie imbrunite oltre la finestra. Una folata di vento fece dondolare l’altalena arrugginita in giardino. Nell’altra stanza un costante e ritmico respiro meccanico. Certe volte quei suoni sincopati lo spingevano a pensare più del necessario, cosa che evitava in maniera scientifica, respingendo tutto dentro il cofano ermetico della sua interiorità mai più scandagliata da quella notte. Certe volte, invece, lo percepiva come un metronomo zoppo che gli conciliava ipnoticamente il sonno.
Sentì un fastidio in testa. Una sensazione di prurito, di zampette nel cervello, un formicolio diffuso e a lungo andare estenuante. Si alzò iniziando a grattarsi la testa freneticamente, svolazzando per la stanza. Alla fine si gettò a terra, vinto, con il capo aperto dalle sue stesse unghie. Un liquido denso e oleoso ricopriva il tappeto e il crepuscolo sfumava di scuro quella peluria polverosa impregnata di sangue.
Si svegliò di soprassalto. La sigaretta si era lasciata incenerire adagiandosi sul pavimento, a lato della poltrona. Vide il tramonto nascondersi dietro la città e la solita cantilena meccanica nelle orecchie. Si passò le mani sul viso; non aveva idea di quanto avesse dormito. Si alzò con la testa anestetizzata, ottusa e vuota. Era l’ora del rituale.
Attraversò il soggiorno, claudicando. Percorse il corridoio con calma, facendo scricchiolare il pavimento di legno a ogni passo. Il suono del respiro ritmico delle macchine si fece più intenso. Il crepitio dei suoi piedi si fuse con la persistenza sinfonica artificiale della stanza in fondo al cunicolo oscuro, in un macabro duetto che gli picchettava i timpani usurati. Ormai non si ricordava più che aspetto potesse avere il silenzio. Spinse la porta socchiusa. Dalla portafinestra a sinistra che dava sul balcone non filtrava più luce. A quell’odore stantio di muffa d’ospedale non si era mai abituato, neanche dopo sette anni. Accese l’interruttore. La vista gli si aggiustò su sua figlia, perennemente sdraiata. I rumori sincopati delle macchine presero forma nei monitor, nelle pompe per l’ossigeno, nelle perpetue sacche di flebo che pisciavano il proprio contenuto nelle sue vene. Si avvicinò al lato del letto per salutarla. Le passò la mano sulla fronte, scostandole i capelli umidi che le piangevano sul viso rinsecchito. Gli parve che avesse una specie di sorriso e se ne rallegrò. Dopotutto pensò che non poteva non essere viva, e che aveva fatto bene a non sopprimerla dopo l’incidente. Tutti quei cazzo di medici che gli appioppavano discorsi sullo stato vegetativo, sulla quasi impossibilità del risveglio, sulla morte etica, sul lasciare andare, e altre parole vuote. Non era bastato perdere la moglie sotto quel tir, alla fine sarebbe passato pure da stronzo volendo far tutto il possibile e l’impossibile per mantenere in vita la sua bambina. Aveva cinque anni, cristo… Si era salvata per miracolo, che doveva fare, ucciderla lui? Niente gli levava dalla testa che se doveva morire l’avrebbe fatto assieme a sua madre.
Le fece un’altra carezza. Le pupille erano vitree e impalpabili e non cercavano mai le sue. La sua pelle era pallida, fine e rigida. Dava l’impressione di un sacco logoro pieno di gelatina, trattenuta a stento. Aveva paura che a lungo andare diventasse trasparente. Subito si rese conto che anche se per caso fosse viva, non era di certo lì in quel momento. Pensò a quanto quella definizione calzasse perfettamente anche per lui, ed ebbe un rigurgito di risata amara. Le voltò le spalle e raggiunse il lavandino per preparare la spugnatura. Cercò di non vedersi allo specchio. Tornò verso di lei per iniziare la procedura. Alzò la coperta e vide rosso. Rimase di sale, si allarmò. Si ricordò le raccomandazioni dell’infermiera che la seguiva mentre lui era al lavoro, a proposito delle emorragie da decubito, di come dopo un certo periodo di tempo potevano presentarsi. Stava già componendo il suo numero mentalmente. Ma poi guardò meglio. La spogliò e le tolse il catetere. Non si trattava di sangue purulento fuoriuscito da qualche piaga sfuggita alle sue cure ossessive. Vide quell’esserino rattrappito, la sua seppiolina che aveva macchiato le lenzuola. Improvvisamente sentiva che non ce la poteva riuscire a reggere. Aveva affogato per sette anni il dolore nella speranza, schermando qualsiasi emozione che non fosse completa dedizione a sua figlia, ma adesso aveva un nodo spaventoso in gola. Singhiozzò trattenendo una diga che ormai era destinata a rompersi. Tecnicamente adesso poteva rimanere incinta, pensò, la immaginò come donna e scoppiò in un fragore che fece tremare la casa, rendendosi conto di quello che non sarebbe mai successo e di tutte le esperienze di padre che non gli sarebbero toccate. Pianse a dirotto, regredendo alle frignate infantili dei cinque anni, l’età che sua figlia avrebbe sempre avuto per lui. Maledì dio e tutti i santi, tirò pugni sul pavimento insultando sé stesso e la sua pietà, la sua famiglia che non esisteva più da un secolo e non se ne era voluto accorgere; quell’istinto paterno a cui aveva venduto l’anima riducendosi a schiavo, soltanto per amore. E non era un cazzo giusto per nessuno. Nulla da quell’incidente in poi era stato giusto, ogni cosa capitata, da qualsiasi angolazione la vedeva era profondamente sbagliata. Ma la cosa più atroce di tutte, quella che adesso lo piegava in posizione fetale ai piedi del letto in cui sua figlia avrebbe passato il resto dei suoi giorni, era che non era colpa di nessuno. E questo non era in grado di accettarlo.
Si arrese al destino, a una provvidenza cieca che senza remore portava avanti quel grande macchinario che è l’universo. Un po’ come facevano quelle diavolerie rumorose con sua figlia.

“Questo è il momento” pensò. “È proprio dove doveva essere. Non sarà né farà altro in vita sua”.

Si alzò e si ricompose. Spostò il letto e staccò ogni spinotto. Chiuse gli occhi e assaporò di nuovo il silenzio. Le tolse la siringa della flebo, il tubo dalla gola e qualsiasi altra catena che imprigionasse lei e per estensione lui stesso. La spostò e le si accucciò accanto. Le stette vicino tutta la notte mentre moriva. La sognò correre e saltare, impazzire di vita mentre calpestava mucchi di bambini che non facevano altro che dormire. Un’offesa per lei che era stata costretta a dormire per tutti quanti. Arrivò un punto, lo percepì bene, in cui la vide proprio distaccarsi dal letto, avviandosi per il corridoio con le sue gambe da ragazza. Prima di uscire di casa, si voltò, gli sorrise e la sentì parlare dopo tanto tempo:

«Sei ancora qui?»

Si svegliò a mattina, sentendo il suo corpo freddo, indurito. La baciò per l’ultima volta sulla fronte. Scese dal letto e si diresse al lavandino, dove si spugnò il viso. Si guardò allo specchio e vide la sua faccia senza fardelli. Poi aprì la portafinestra e uscì sul balcone. Inspirò a pieni polmoni aria pura. Una folata di vento spettinò i castagni e fece oscillare l’altalena in giardino. Pensò a sua figlia, a chissà dov’era, magaria lasciarsi dondolare di nuovo, in qualche posto irraggiungibile dell’universo.

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