Steve Earle - Jerry Jeff (2022)

 

di Gianfranco Callieri

«In questo mondo colpevole, che solo compra e disprezza», scriveva Pier Paolo Pasolini nei versi della Religione Del Mio Tempo (1961), «il più colpevole sono io, inaridito dall’amarezza». Ma è un’accusa, quella del farsi spegnere dalla disillusione dilagante e da un incombente senso di vuoto, che di certo non si può rivolgere a Steve Earle. Bollito, secondo alcuni, da una routine ormai composta dal mestiere (e dalla necessità di provvedere al figlio autistico) anziché dall’ispirazione e quindi occupato a produrre, l’una di seguito all’altra, opere assolutamente estemporanee; sempre fedele, secondo chi scrive, all’imperativo di riannodare con costanza i fili del passato, all’obbligo interiore di instaurare un dialogo ininterrotto col proprio immaginario e i suoi elementi costitutivi allo scopo di esorcizzarne ricordi e rimpianti.

E così, dopo essersi misurato col blues attraverso una vitalità quasi punk in Terraplane (2015), dopo aver ragionato sullo scorrere del tempo con l’amica e collega Shawn Colvin in Colvin & Earle (2016), dopo aver aggiornato il progressive-country dei ’70 con un po’ di sporcizia e cattiveria in So You Wannabe An Outlaw (2017), dopo aver parlato di lavoro e morti bianche nello spigoloso Ghosts Of West Virginia (2020) e dopo aver reso omaggio alla memoria del primogenito Justin Townes, scomparso a soli 38 anni, tramite le spine rootsy del doloroso J.T. (2021), ecco che oggi, con questo Jerry Jeff dedicato alla rivisitazione di dieci episodi dal catalogo di Jerry Jeff Walker, Earle porta a compimento un’ideale trilogia, inaugurata nel 2009 di Townes (Van Zandt) e proseguita nel 2019 di Guy (Clark), sulla persistenza degli insegnamenti dei suoi maestri. Sull’arte e sul gesto dei mèntori al cui esempio si è rifatto per imparare a scrivere canzoni e per farlo, per di più, senza mai rinunciare all’onestà e al disincanto.

Van Zandt, Clark e Walker (quest’ultimo originario della provincia di New York ma diventato un beniamino della scena texana, nonché uno dei suoi punti di riferimento, in seguito al trasferimento nel Sud) sono stati, per uno Steve Earle alle prime armi (pure lui nato altrove, ossia in Virginia, benché cresciuto tra San Antonio e Houston), gli autori in grado di fargli scambiare il Texas della giovinezza «per la California meridionale». Cioè per la meta privilegiata e accogliente di pazzi, sognatori, emarginati, sbandati, idealisti in disarmo e soprattutto musicisti, attirati dalla promessa di un luogo creativo, estraneo a barriere e steccati. Mentre però i toni cupi di Townes immortalavano la dimensione più oscura e tormentata del cantautore di Fort Worth, e quelli distesi e vivaci di Guy celebravano con asciutta nostalgia il portamento inconfondibile di un paziente artigiano delle note, Jerry Jeff, pubblicato a due stagioni dal decesso di Walker per un cancro alla gola, prova invece a mettere in scena una divertita sintesi delle atmosfere dei predecessori, ora raggomitolandosi nella rilassatezza di polverose ballate, ora concedendosi piccole scariche di honky-tonk straccione e countreggiante.

A non venire mai meno, non nell’esordio col botto di Gettin’ By e Gypsy Songman (la prima caratterizzata da qualche modifica nelle liriche, tutte e due vivacizzate da un dettato country antiretorico, spumeggiante, irresistibile) né nel congedo “cosmico” di una Old Road affidata soltanto alla suggestione delle voci e a un’armonica bluesy frustata dal vento e dalla malinconia, è tuttavia la consapevolezza di come le sgrammaticature adoperate da Walker nel frullare country, blues e r’n’r (qualcuno, accostandone l’operato a quello giornalistico di Hunter S. Thompson, parlò di stile «gonzo») non fossero sintomo di pigrizia e noncuranza ma rispondessero, altresì, a un preciso disegno impressionista e allergico ai paludamenti del mainstream, capace di sottrarre la tradizione alle sue derive più reazionarie per trasformarla, a sorpresa, in quella che lo stesso Earle chiama, giustamente «full-blown hippie music». E al cui spirito lui e i suoi fidati Dukes si attengono, speziando di soul e urgenza comunicativa l’arcinota, immancabile Mr. Bojangles, sottolineando la natura gioiosa di Charlie Dunn e I Makes Money (Money Don’t Make Me) con robuste iniezioni di febbrile country-rock, scoprendosi pensosi e meditativi nei pressi di My Old Man nonché attenti e devoti alla melodia cristallina di Little Bird. Fino a raggiungere vette di dolente, inaspettata espressività prima alle prese con la dolcezza folkie di un’incantevole Hill Country Rain, poi nei laconici ricordi guerra, in forma di interrogazione delle proprie radici, evocati nella stupenda Wheel, altro blues astrale sulla fragilità della vita e degli esseri umani.

Jerry Jeff ci conferma che, per Steve Earle, nel fare dischi il cuore conta più del calcolo, e il «radicamento, la stanzialità, la nostalgia per la terra d’origine, la difesa e la cura del territorio» in cui si è nati e vissuti (per usare le parole con cui l’antropologo Vito Teti definisce l’attaccamento ai propri luoghi, intesi anche in senso metafisico) appartengono non a un’azione di retroguardia ma alla perpetua necessità di fare i conti con se stessi e con gli scambi, gli incontri, le conoscenze di una vita spesa sulla strada. E se questo non basta a fare del ventiduesimo lavoro in studio di Earle un album irrinunciabile, è però sufficiente a gettare una luce di affetto e concordia sulla negatività sperimentata quotidianamente, fino a stringere in mano una lettera d’amore da declamare, con orgoglio, sulle macerie di un’epoca che della poesia, dei rimpianti, dei sorrisi e delle lacrime di un tempo non sa più cosa farsene.

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