Litfiba - 17 Re (1986)

Il disco di oggi l’ho comprato in gita scolastica liceale a Firenze in un negozio di dischi che si chiamava Data Records 93. Spero che quel negozio, dal fascino incredibile per gli interi scaffali a muro pieni di dischi, ci sia ancora (sosteniamo per quanto possibile i piccoli negozi di musica, baluardi di emozioni e idee come le librerie). A me del disco piacque la copertina, e poi in quel periodo i Litfiba, anni dopo la pubblicazione del disco di oggi, erano una band molto famosa in Italia. La storia dei Litfiba inizia a Firenze agli inizi degli anni ‘80:  Federico “Ghigo” Renzulli alla chitarra e alla voce (ex Cafè Caracas, formazione che al basso aveva un ragazzo pugliese, Raf), Sandro Dotta alla chitarra, Gianni Maroccolo al basso, Antonio Aiazzi alle tastiere, Francesco Calamai alla batteria (tutti ex membri dei Destroyers) e dopo che Dotta abbandona il gruppo, Piero Pelù (ex Mugnions) alla voce. Il loro riferimento è il punk, o quello che era rimasto, il rock psichedelico e i primi esperimenti europei della new wave, che proprio in quegli anni stava diventando il “genere” di riferimento. C’è un problema: non hanno ancora un nome. E l’idea venne a Renzulli che prese l’ipotetico indirizzo del telex della sala di registrazione dove suonavano, di Via De’ Bardi 32 a Firenze (il telex era un sistema di comunicazione telegrafica tra le aziende): "L"= sigla fissa di chiamata del sistema Iricon; “IT”= Italia; “FI”= Firenze; “BA”= Bardi, Litfiba. Iniziano a suonare per locali e a farsi un nome, nel 1982 il primo Ep, Litfiba, poi la vittoria al  Rock Festival Italiano, il cui premio prevede la pubblicazione di un disco. Cambi di formazione fino al 1983, quando Ringo De Palma diventa batterista ufficiale. Nel 1985 vengono scritturati dalla IRA di Alberto Pinelli e Anne Marie Parroncel (IRA sta per Immortal Record Alliance, una delle prime e grandi etichette indipendenti della musica italiana) e hanno in mente una serie di album collegati tra loro nelle tematiche, immaginando una tetralogia del potere: si inizia con Desaparecido (1985) il disco che li fa conoscere, caratterizzato dal quel suono new wave che contaminano con echi mediterranei (un po’ come il Banco Del Mutuo Soccorso fece con il progressive). Nel 1986, esce il secondo capitolo, il disco di oggi: 17 Re. In copertina, il cuore di Cristo spinato, simbolo del Re dei Re, in un disco che per i fan è il loro migliore, di gran lunga, per la critica idem ma che vendette pochissimo, tanto è che la mia copia comprata a Firenze adesso vale sui 75€. È un disco ambizioso, sin dalla durata ( doppio lp, 4 facciate per 16 brani) e che si doveva chiamare 17 Re proprio per una traccia omonima, la diciassettesima, che fu scartata alla fine perchè ritenuta più debole. Tutta la band è in fase esplosiva di crescita: Pelù sembra un cantante diverso rispetto a Desaparecido, tutta la musica è densa di emozioni, con i primi grandi riff di Renzulli, le grandi tastiere dal suono internazionale di Aiazzi, con la guida ritmica di Maroccolo e gli arrangiamenti di Francesco Magnelli. Alcune canzoni diventano dei loro classici: Re Del Silenzio, sulla depressione, con l’ossessivo giro di basso, Resta sul disastro di Cherobyl, Apapaia che già focalizza sul rispetto delle minoranze etniche, a cui si accompagnano canzoni davvero visionarie, anche a distanza di anni, cupe e introspettive come Vendette,  Pierrot E La Luna,  Sulla Terra e la commovente Ballata. Il disco ha due gemme: Come un dio, immagina le emozioni nell‘essere una divinità, pronta a far “morire di paura” tutti gli uomini; Gira Nel Mio Cerchio è quasi sperimentale nella sua psichedelia, e molti nel testo ci videro capziosamente il racconto di una messa nera. Cane, dal testo quasi nonsense, è puro punk.. Da ricordare anche Tango, inno antimilitarista contro la leva obbligatoria con le sue fisarmoniche, e Oro Nero, orientaleggiane nelle atmosfere dato che parla delle guerre per il petrolio in Medio Oriente e Ferito che chiude il disco è il brano dedicato alle popolazioni colonizzate dal “grande capo bianco”. Come dicevo in precedenza, l’album fu acclamato dalla critica, anche perchè è stato il primo album doppio della musica indipendente italiana, è considerato uno dei dischi italiani più importanti di sempre, per i testi, il respiro internazionale della musica e per la qualità delle canzoni, ma vendette pochissimo, pur rimanendo un culto. Dopo un live, bellissimo, 12-5-87 (aprite i vostri occhi) registrato al Tenax di Firenze, che in verità taglia molto dalla scaletta ufficiale del concerto (per la rabbia dei fan), i Litfiba svoltano verso il rock classico con Litfiba 3: sempre temi politici, antimilitaristi e attenti ai soprusi dei potenti, ma musica decisamente meno rifinita, più venata dell’ardore dell’hard rock degli anni ‘70, decisione che porterà all’uscita dal gruppo di Maroccolo (che assieme a De Palma e Magnelli entrerà nei CCCP) e anche di Aiazzi, che però continuerà a collaborare con il duo Pelù-Renzulli. Va da sè che per molti è il trampolino del tradimento (e non mi dilungo perchè chi ha letto qualche volta le storie di musica sa che trovo pretestuosi i ragionamenti così). Rimane un disco storico, intenso e che va riscoperto, avvolto dall’aura magica di esperimenti che per ragioni oscure rimangono irripetibili. E se qualcuno sa se esiste ancora Data Records 93 me lo segnali.

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