Tom Wilson: Futuristic Sounds

Storia di un produttore che ha fatto la storia del jazz e del rock e poi è stato inghiottito dall'oblio 

 a cura di Riccardo Bertoncelli 

Un giorno del 1955 un giovane ragazzo nero affamato di musica si fece prestare 900 dollari da parenti e amici e decise che avrebbe fatto il discografico.
Sentiva il vento nuovo del jazz e fondò un’etichetta con il trasparente nome di Transition, dando spazio a forme nuove e inascoltati profeti. Fu un’illusione, durò poco, ma pubblicò belle opere e fra le altre cose ebbe il merito di intercettare due giganti che ancora non avevano trovato accoglienza: Cecil Taylor (il capolavoro «Jazz Advance») e Sun Ra («Jazz By Sun Ra», poi ristampato dalla Delmark come «Sun Song»). Cominciò così una vicenda straordinaria che si sarebbe sviluppata ai massimi livelli per quindici anni e poi, in décalage, fino alla morte nel 1978; una vicenda che periodicamente riaffiora nei flutti della storia jazz e rock ma che per misteriose ragioni non è mai stata raccontata per bene. I grandi produttori di quegli anni hanno ricevuto tutti il giusto riconoscimento: John Hammond ha scritto le sue memorie, a Phil Spector hanno dedicato libri e film, Joe Boyd (l’equivalente britannico del nostro Tom, se vogliamo) ha scolpito la propria saga nella meravigliosa stele dell’autobiografia (Le biciclette bianche, imperdibile). Wilson no, Wilson è morto prima che qualcuno si mettesse sulle sue tracce, e anche dopo, quando la storiografia jazz e rock si è fatta più ambiziosa e penetrante, nessuno ha messo in quadro la sua opera. Per fortuna ogni tanto qualcuno se ne ricorda. L’ultimo in ordine di tempo è Marshall Crenshaw, un bravo revivalista folk rock da tempo un po’ in disparte, che ha deciso di dedicare a Wilson il suo nuovo spettacolo. Nella prima parte canterà i suoi classici, nella seconda onorerà il vecchio Tom con alcune delle canzoni che lo videro protagonista in studio, dall’altra parte del vetro.

Wilson aveva ventiquattro anni ai tempi della Transition, era laureato con lode a Harvard e faceva politica con i giovani Repubblicani. Presto diventò assistente del direttore alla New York State Commission for Human Rights ma più del sociale lo intrigava la musica, e dopo la breve parentesi da discografico sfogò quella passione come disc jockey alla WHRB di Boston e come produttore per United Artists e Savoy. Sun Ra continuava a inquietarlo, e gli diede spazio ancora per «Futuristic Sounds», Cecil Taylor anche di più, e lo produsse in due memorabili occasioni: «Love For Sale» e soprattutto «Stereo Drive», un album che forse non conoscete con questo titolo perché ha avuto diversi alias, con il tempo è passato nella discografia di Coltrane e si chiama «Coltrane Time». Altri protetti dell’epoca furono il giovane Herbie Mann, Booker Ervin in varie occasioni, anche con Max Roach, Steve Kuhn, Randy Weston. Ma a Wilson stavano stretti i panni del produttore unicamente jazz e nel 1963 iniziò una seconda vita, quando John Hammond lo portò alla Columbia affidandogli il giovane Dylan al suo secondo album, «The Freewheelin’». Sarebbe bastato quello, il disco di «Blowin’ In The Wind», per consegnare Wilson alla storia; ma il destino doveva amarlo follemente perché poi vennero anche «The Times They Are a-Changin’», «Another Side», «Bringing It All Back Home», «Highway 61 Revisited», cioè il fiore profumato del Dylan più autenticamente Dylan, cioè pezzi di storia che mandano luminosi raggi nello spazio ancora oggi, a decenni di distanza. Wilson fu il fedele produttore di tutti quegli album, fino a Like A Rolling Stone, e scusate se è poco. Poi, per ragioni che nessuno ha mai chiarito, uscì dall’orbita dylaniana per non tornare più, sostituito da Bob Johnson.

Che tipo di produttore era Tom Wilson? Il dibattito è aperto. C’è chi dice che fosse un mero controllore del traffico in studio, un ottimizzatore, come direbbero in RAI, attento solo ai tempi di lavorazione e alle economie di sala; ma è un giudizio riduttivo e ingiusto, e si imputerebbe al caso, una sfacciata portentosa fortuna, il fatto che Wilson si sia trovato al crocevia di tante opere fondamentali. Certo non interferiva con le scelte degli artisti, se non per dettagli tecnici, e d’altro canto teneva scrupolosamente le parti della casa discografica che lo pagava. Ma aveva una visione, come ha lasciato detto di lui un altro dei suoi giganti, Frank Zappa, e sapeva distinguere il nuovo dal solito, e spingeva volentieri le sue antenne oltre, sempre più in là. Per questo, non per buona sorte, ottenne risultati memorabili battendo forte la lastra della sua arte.
C’è una bella testimonianza sul modo di lavorare di Wilson con Dylan, e viene da Nat Hentoff e da un suo celebre articolo, The Crackin’, Shakin’, Breakin’ Sounds, apparso sul New Yorker ai tempi di «Another Side Of Bob Dylan». Hentoff è invitato alla registrazione di quello storico disco e fa la cronaca delle quattro magiche ore in cui l’album prende forma, con Dylan per l’ultima volta in studio senza gruppo e Wilson in cabina che ascolta, consiglia, lascia fare ma ogni tanto stringe le briglie. Gli interessa soprattutto che Dylan abbia imparato a non muoversi troppo davanti ai microfoni, evitando di disturbare la registrazione; nello stesso tempo però tiene a bada il tecnico che vorrebbe sempre qualcosa di «meglio». Ha capito che quelle canzoni vanno sfogate, non meditate e men che meno lavorate; e che il giovane Bobby è un cavallo troppo bizzoso per poterlo condurre dove lui non vuole. Sarà quella semplice saggezza a portarlo lontano.

Wilson chiude la sua avventura con Dylan il 16 giugno 1965, il giorno in cui viene registrata Like A Rolling Stone. Quel giorno va a trovarlo in studio Al Kooper, un polistrumentista suo amico che, vista l’occasione, prova a proporsi come sessionman. Intimorito dall’abilità del chitarrista titolare, Mike Bloomfield, lo scaltro Kooper si sposta alle tastiere e prova a dare una mano da lì, con la benevola tolleranza del produttore. Il siparietto che ne viene farà la storia. «Dylan riascolta la take e chiede al tecnico di alzare la pista dell’organo. “Bobby, il ragazzo non è un organista”, scandisce Wilson all’interfonico. Pensate che a Bobby possano interessare quisquilie del genere? “Non me ne importa un fico. Tira su quella pista!”. Wilson se ne fa una ragione. “Okay, resta lì, questa è CO86446, Like A Rolling Stone, remake take 1”.» Al Kooper deve buona parte della sua fortuna a quel pomeriggio e sarà sempre grato a Wilson, e alla sua capacità di laissez faire. Di lì a poco se lo ritroverà come produttore dei Blues Project per l’ottimo «Projections» e anche da quei solchi verrà musica bella e nuova.
Che Wilson non sia un mero impiegato discografico lo dimostra un’altra storia di quelle settimane, a proposito di Paul Simon e Art Garfunkel. Più di un anno prima, Wilson ha prodotto il loro primo album, «Wednesday Morning, 3 A.M.», che la Columbia ha pubblicato nell’ottobre 1964 senza cavare un ragno dal buco. Il duo si è sciolto e Simon ha addirittura lasciato la sua New York per cercare fortuna in Gran Bretagna. Tempo qualche mese e alcuni disc-jockey si invaghiscono di una canzone dell’album, The Sounds Of Silence (plurale, nella originaria versione), e cominciano a programmarla nel circuito delle radio dei college. Wilson si incuriosisce e torna a studiarsi il brano, convincendosi che sì, ha un grande potenziale, ma l’arrangiamento acustico finisce per limitarlo. È l’estate di Like A Rolling Stone, l’estate dei Byrds jingle jangle, e l’idea che gli viene è quella di aggiungere basso e chitarra elettrica più una batteria, per una sorprendente mutazione folk rock. La mossa è vincente, nel giro di qualche mese The Sound Of Silence (questa volta singolare) vola al numero 1 delle classifiche. Gli artisti non sono stati neanche avvisati, Paul Simon scopre l’accaduto quando è in Danimarca e un giorno per caso guarda la classifica di Billboard.
Nonostante le prodezze, Wilson se ne va dalla Columbia e cerca fortuna alla Verve MGM, dove vivrà i suoi anni migliori, 1966-68, guarda caso quelli dell’esplosione del rock più fantasioso e intelligente. È lui il primo a credere in Frank Zappa, usandolo come arrangiatore per uno degli ultimi album degli Animals, «Animalization», e sponsorizzando poi le sue inverosimili avventure con i Mothers of Invention. Zappa nelle sue memorie lo ricorderà ironicamente come un uomo di studio sempre al telefono, che cercava di tranquillizzare i discografici a proposito delle folli cose che ascoltava in sala e in cui proprio non metteva becco. Fu grazie alla sua tenacia e alla sua arte diplomatica se «Freak Out!» strappò un budget straordinario e uscì in forma di doppio long playing, primo caso, che io ricordi, nella storia di un artista esordiente; e se «Absolutely Free» rimase nonostante gli scettici la scatola sonora multi-scomparto che l’autore aveva in mente, oggetto discografico non identificato nel mondo di quei giorni. C’è la firma di Wilson anche su «We’re Only In It For The Money», la fatwa anti «Sgt. Pepper» di Frank Zappa, sebbene nei crediti sia ridimensionato a executive producer. Nessuno è rimasto a spiegarci la differenza.

Alla Verve Tom Wilson portò anche i Velvet Underground, che aveva conosciuto come timidi questuanti in Columbia e di cui fu tra i pochi a innamorarsi. Produsse i primi due lp, i capolavori, e stette dietro a Nico e Cale per «The Chelsea Girl»; credeva in quei misteriosi suoni oscuri, in quella luce nera, anche se era tutto così lontano dalla Transition e dai primi amori jazz. Per la MGM invece lavorò il prodigioso Eric Burdon di «Eric Is Here, Winds Of Change e Twain Shall Meet»; dischi dimenticatissimi oggi eppure così vibranti e forti, annunci di un’epoca nuova che pochi adulti comprendevano («non credete a chi ha più di trent’anni») ma quel signore quasi -anta intendeva benissimo. Siamo nel 1968, Wilson è sulla cresta dell’onda e a settembre il New York Times gli dedica un servizio speciale nel suo inserto settimanale, A Record Producer Is A Psychoanalist With Rhythm. Non è un articolo memorabile e soprattutto Wilson sponsorizza gli artisti sbagliati: giovani promesse come i Bagatelle, i Central Nervous Breakdown e la Ellen Mellwaine che figura con lui in copertina. Spariranno tutti subito nella botola del tempo. Peccato. In realtà Tom sta facendo di meglio con i giovani e sconosciutissimi Soft Machine, di cui ha appena prodotto l’album d’esordio per la Probe, e di lì a poco sparerà gli ultimi fuochi d’artificio con i Fraternity Of Man di Lowell George e con Country Joe & the Fish, purtroppo per uno dei loro dischi più deboli, il quinto. È diventato un produttore indipendente e quindi in teoria dovrebbe avere mano più libera, ma sorprendentemente perde il tocco. Gli anni Settanta non gli regaleranno più soddisfazioni, come se d’improvviso non capisse più il rock che pure ha contribuito a portare ad altezze stellari; e sembra avere perso gusto per il jazz, e la nuova musica nera gli è estranea, anche perché sdegnosamente si tiene lontano dalla retorica dell’ I’m black, I’m proud e non cavalca le mode musicali e politiche. Alcol e donne pare facciano il resto, ma questo è colore e leggenda, chissà. I fatti certi sono che le produzioni diradano e che Wilson muore, dimenticato, il 9 giugno 1978 a Los Angeles.

Non so che brani Marshall Crenshaw porterà in concerto per il suo tributo, ha solo l’imbarazzo della scelta, a cominciare naturalmente da The Sound Of Silence; e non so se racconterà qualcosa di Wilson tra un brano e l’altro, facendo teatro/musica come Joe Boyd e Robyn Hitchcock nel loro show di qualche anno fa. Ne avrebbe di storie, gloriose come abbiamo visto ma anche curiose, buffe, al limite del credibile. Come quel disco per la microscopica Tifton Records che Wilson trovò il tempo di produrre un giorno del 1966, nella sua stagione migliore. Si chiamava «Batman & Robin» e scimmiottava la serie TV che allora andava per la maggiore, con allusioni al misterioso mondo di Gotham City accreditate alle «sensational guitars of Dan & Dale». Un clone di Santo & Johnny, direte voi. Macché. Mettevi il disco sulla puntina e sprizzavano suoni di ordinario pop beat eseguiti da una improvvisata band che anni dopo si sarebbe scoperto composta da (tenetevi forte) Sun Ra, Pat Patrick, John Gilmore e Marshall Allen, cioé la quintessenza dell’Arkestra, più i Blues Project di Al Kooper e ospiti vari.
Sappiamo il quando e il come, forse un giorno qualcuno ci spiegherà il perché. Per un pugno di dollari? Per il gusto della provocazione? Per disintossicarsi da troppa arte e avanguardia? Anche questo era Tom Wilson.

Riccardo Bertoncelli | musicajazz

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