The Randy Newman songbook

Uno dei più intelligenti e originali autori del nostro tempo ripercorre la sua carriera con una emozionante trilogia di lavori per voce e pianoforte

a cura di Riccardo Bertoncelli 

Randy Newman è un distinto signore carico di gloria di cui è perfettamente inutile conoscere l’età. Certo, le cronache ci dicono che è nato a Los Angeles nel 1943, che lì ha studiato all’università negli anni Cinquanta, che è stato fecondo compositore e arrangiatore nei Sessanta prima di diventare interprete, passando con naturalezza dalla teenage music alla canzone d’autore. Ma chiunque conosca il tipo sa che questi sono dettagli ininfluenti. Newman in realtà ha sempre immerso la sua musica in una capsula temporale che potremo situare nei dintorni della sua nascita e anche prima, anni Trenta e Quaranta, quando a Hollywood e a Broadway operavano tre suoi zii, Alfred, Lionel ed Emil Newman, che hanno legato il proprio nome a decine di film anche importanti: Il prigioniero di Zenda, Cime tempestose, Gli uomini preferiscono le bionde. La cinemusica è nel DNA della stirpe Newman, si contano anche diversi cugini che hanno scritto colonne sonore; e Randy soprattutto da grande ha spopolato in quel territorio, sempre però mantenendo un gusto antico, una musica volentieri color seppia, vintage, con gli educati modi di una volta. D’altronde la sua carriera cominciò così, controcorrente, nella Burbank frequentata anche da Frank Zappa, Joni Mitchell, Tim Buckley, i Fugs, Neil Young, Arlo Guthrie. Cantavano tutti un’America nuova e alternativa, anche Randy, solo che lui si impuntava a vestirla con gli abiti di un tempo, preferendo il ragtime al folk-rock, il pianoforte alla chitarra elettrica. Più importante della cronologia, con lui, la geografia: mai dimenticare che è nato a Los Angeles ma ha vissuto per anni a New Orleans, il luogo delle fantasie e dell’imprinting come e più di Hollywood.

Colonne sonore a parte, Randy Newman ha scritto pochissimo negli ultimi decenni, solo tre album e un musical (il Faust!) dopo il 1983. È messo male di salute ma sa di avere comunque un tesoro nei forzieri, e allora meglio lucidare quelle monete che batterne altre. Così nel 2003 ha cominciato a riproporre i pezzi preferiti in nude versioni per voce e pianoforte. Ha scelto un titolo semplice, «The Randy Newman Songbook», e con calma si è portato avanti: un volume 2 nel 2001 e il 3 in queste settimane, assieme a una raccolta complessiva che aggiunge cinque bonus. In tutto fanno cinquantasei pezzi per quasi mezzo secolo; mancano le primissime pagine ante-1968 ma il resto c’è, onestamente ripartito tra i vari periodi e progetti. Ad aiutarlo, due amici di epoche diverse: Mitchell Froom, quasi un fratello minore, e Lenny Waronker, il babbo artistico amato, anzi, venerato, «colui che mi ha spinto a scrivere canzoni e a farle circolare presso gli editori. Non so dove sarei senza di lui. È stato Lenny a darmi il coraggio di provarci e continuare, il coraggio che io non avevo.»

Non pensate di godervi il «Songbook» un pezzo via l’altro, non è così che si ascolta Randy Newman. Come un Bas Armagnac d’annata – non riesco a trovare distillato più adatto – Randy va sorseggiato, assaporato, meditato. Sorsi piccoli, come la taglia di queste versioni: due minuti, tre, qualche volta anche meno. E la musica non deve correre da sola, perché è quasi sempre al servizio dei testi, con il suo carico di emozioni e suggestioni. Sono miniature di estrema raffinatezza, che racchiudono storie raccontate con efficace sobrietà. Newman ha sempre preteso di essere uno scrittore di racconti brevi: meglio, ha sempre preteso di avere la stessa libertà che si consente ai narratori. Perché i cantautori devono scrivere solo di sé, per lo più d’amore, e avere un campo d’azione limitato? Randy ha rotto il tabù. Via via nel «Songbook» lo vediamo impersonare personaggi diversi, mettersi e deporre maschere, sognare, rievocare, storie vissute o solo desiderate o completamente inventate. Eccolo in Louisiana un giorno del 1927, con il Mississippi gonfio di acqua e fango, e poi a Dayton, Ohio, 1903, a Berlino prima della guerra o su una decappottabile che percorre la Imperial Highway in quella canzone di sarcastico amore per la sua città che è I Love L.A.; eccolo tornare ragazzo, con tutti gli impacci e i sensi di colpa, in quella Mama Told Me Not To Come che fu la prima specie di successo come autore, e rievocare ancora più indietro nel tempo, in Kingfish, la figura di un populista del Sud morto ammazzato, Huey Long.

Randy non scrive con il mouse, figuriamoci, ma neanche con la penna. Usa lo stiletto, scorcia versi acuminati che poi dipinge con colori paradossali. La beffa è la sua arma preferita. Ce l’ha con la stupidità umana, come la buonanima del suo concittadino Frank Zappa, e per amore tradito ce l’ha con l’America, che già da giovane metteva alla berlina in quel capolavoro indimenticabile che è Sail Away. Peccato che nel «Songbook» non suoni Political Science, una canzone di disinvolto terrore il cui protagonista potrebbe essere Donald Trump; ma non mancano Sail Away, velenoso invito a godere le meraviglie dell’America (ai tempi avremmo scritto Amerika), Rednecks, invettiva contro Lester Maddox e l’intolleranza del Sud più profondo («il razzismo è il grande male di questo Paese, e tutti lo negano»), e soprattutto I’m Dreaming, scritta ai tempi del secondo mandato di Obama, dove il perfido sogno è quello di un Presidente che può anche saper poco dei problemi del pianeta ma deve essere bianco, «più bianco», «il più bianco», «e io lo voterò». Non solo l’America è nel mirino della sua satira, perfino Dio. Il ritratto che ne dà in God Song è terribile: un Dio spietato che confessa di disprezzare l’uomo, «il più piccolo fiore di cactus o la più umile pianta di yucca valgono di più». «Io brucio le vostre città, come fate a non vedere?/Prendo i vostri figli e la considerate una benedizione/ Dovete essere pazzi per avere fede in me/ Ecco perché amo l’umanità».

Il pubblico ha sempre avuto certe idee sulle canzoni di Randy Newman, lui delle altre. Short People è uno dei pezzi più gettonati eppure, a sentir l’autore, «su “Little Criminals” c’erano brani più belli»; e possibile che fra tutte le canzoni meravigliose di Sail Away l’unica che venga sempre in mente sia You Can Leave Your Hat On? (qui però sappiamo di chi è la colpa). Randy ama visceralmente «Harps & Angels», 2008, l’ultimo disco di canzoni che pubblico e critica hanno accolto tiepidamente; e se deve scegliere un brano prende Lucinda, assurda storia (vera, dice lui) di una ragazza uccisa sulla spiaggia da una macchina che puliva la sabbia. «Una volta ho suonato al Bitter End di New York e tra il pubblico c’era Bob Dylan. Ho fatto un mucchio di pezzi ma lui nei camerini mi ha parlato solo di quello. Mi ha detto: ‘Quella canzone sulla macchina che pulisce la spiaggia… pensi che riuscirò mai a scrivere qualcosa del genere?’ Non ho capito se mi stava prendendo in giro o era serio.»

Non è Lucinda la sua canzone più conosciuta, questo è sicuro, semmai Sail Away, o lo scherzo vaudeville di Simon Smith & His Amazing Dancing Bear, o I Think It’s Gonna Rain Today, di cui Peter Gabriel non troppi anni fa ha dato una versione da brividi, ricordandosi di quand’era ragazzo (il pezzo sta sul primo lp del 1968, quello che ingenuamente strillava: «Randy Newman crea qualcosa di nuovo sotto il sole»). Ma Randy è ancora in corsa, sta registrando un album e nessuno può escludere che dal cilindro possa cavare ancora qualcosa di memorabile; in fondo una delle sue canzoni più belle, The World Isn’t Fair, sorprendente lettera aperta a Karl Marx, appartiene agli anni della maturità. Il disco nuovo uscirà nel 2017 ma già si conosce una canzone, Putin, dedicata con il consueto sarcasmo al leader russo, con una musica che muove dal vecchio inno patriottico Stalin Wasn’t Stalling e arriva dalle parti del Danny Elfman di Night Before Christmas. Come il suo amato Ray Charles con le Raelettes, Newman la canta con il coro delle «Putin girls» ed è caustico, graffiante, implacabile. La sua musica abita sempre dalle parti degli zii e, per dirla come Mitchell Froom, «deriva da Gershwin, non da Woody Guthrie»; ma Randy è saldamente radicato in questi anni e bene informato e gli piace fare il commentatore sociale, un po’ come Phil Ochs amava fare il cronista: «All the news that’s fit to sing».

Riccardo Bertoncelli | musicajazz

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