Patti Smith, la sacerdotessa: da Horses a Banga
Patti Smith da Horses a Banga. Ripercorriamo la storia e la carriera di Patricia Lee Smith indiscussa sacerdotessa del punk, amica e compagna dei Ramones e di Bruce Springsteen…
a cura di Vittorio
In viaggio
Non invocando alcun perdono, sarebbe inutile vista l’assenza di un mio benchè minimo pentimento, torno a scrivere proprio nella settimana dedicata alle donne e desidero scrivere di una donna che tante coscienze ha scosso. Patti Smith, un tempo chiamata sacerdotessa del punk, ben conscia del ruolo ricoperto in tutta la sua carriera. «Non ho mai pensato di essere una politica – ha detto – ma ho sempre voluto comunicare qualcosa. Sono americana e amo i principi su cui si fonda il mio Paese. Abbiamo la libertà, ma sento di avere una grande responsabilità per questo verso il resto del mondo”. Per poi aggiungere “Ho avuto il privilegio di crescere in un periodo di rivoluzione culturale. E la musica ne è stata una componente. Forse non sono stata altro che una pedina, ma sono contenta, comunque, di aver contribuito a cambiare qualcosa».
Oggi l’ossuta cantautrice americana porta addosso i segni di una vita turbolenta. I capelli corvini si sono imbiancati e incorniciano un viso sempre più spigoloso e vivo, ma meno spiritato di un tempo. Come se i due figli e il dolore per la perdita del marito Fred “Sonic” Smith e del miglior amico, il fotografo Robert Mapplethorpe, avessero lenito il suo fervore allucinato. Quel fervore che segnò il suo esordio nelle cantine di New York dove Patricia Lee Smith, originaria di Chicago ma cresciuta a Pitman (New Jersey), approdò nel 1967.
Era già ragazza madre e scriveva poesie. Per anni lavora come commessa in un negozio di libri, scrive su una rivista musicale, s’improvvisa drammaturga. Riesce ad entrare nel giro dell’intellighenzia newyorkese, da Andy Warhol a Sam Shepard, da Lou Reed a Bob Dylan. «Da bambina – racconta – non pensavo di diventare una rockstar. Sognavo di essere una cantante d’opera. Piangevo ascoltando Maria Callas e volevo diventare come le. Ma ero troppo magra…».
Il Ricordo
Questo desiderio lo ha esternato anche in occasione della presentazione del concerto che ha tenuto al festival “Ferrara sotto le stelle” A.D. 2000.
In quell’occasione ho avuto modo di intervistarla e sorseggiando un cappuccino – my favourite drugs, now – ebbe parole di ammirazione per la città estense, per Maria Callas e Puccini. Per quelle strane combinazioni astrali avevo in borsa il cd della Madame Butterfly, con foto della Callas, me la autografò e mi sorrise estasiata. Il concerto, alla sera, fu strepitoso. A me piace pensare anche perché nel pomeriggio vide che un suo fan di vecchia data teneva in borsa un cd di Puccini! Ma forse sto fantasticando troppo…
La spirale del rock l’aveva fagocitata in tenera età. È sempre lei che tramanda ai posteri la sua esperienza da ragazzina, quando ebbe la sua prima eccitazione sessuale vedendo uno show dei Rolling Stones.
Patti Smith fa la sua prima apparizione in pubblico nel 1969 (nei panni di un uomo) nella commedia “Femme fatale”, scrive testi per i Blue Oyster Cult del suo compagno Allen Lanier, ha una relazione con Tom Verlaine dei Television di cui si invaghisce follemente, compone le musiche per le proprie recitazioni libere, sostenuta dalle chitarre inquietanti di Lanny Kaye. Ed è nei templi underground newyorkesi, come Cbgb’s e Other End, che Patti Smith spopola insieme ai futuri compagni di strada: Television, Talking Heads, Ramones, Blondie. Il suo primo singolo, Hey Joe/Piss factory, segna l’anno zero della new wave americana. Sarà Lou Reed in persona a metterla in contatto con Clive Davis, presidente dell’Arista, che diventerà la sua etichetta storica.
L’esordio di Patti Smith Horses
Nel 1975 arriva il primo album Horses (prodotto da John Cale) che le vale subito un’enorme fama nel circuito underground americano. E’ il disco che porta nella storia del rock un nuovo linguaggio musicale: una sorta di commistione tra recitazione “free form” e musica, in cui il testo diventa il punto di partenza, ma mai un limite. Apre Gloria, cover dei Them di Van Morrison. Una poesia inedita viene incastonata nell’originale blues. Il credo cristiano trova nella Smith una dissacrante interprete: “Gesù è morto per i peccati di qualcun altro, non per i miei” e “I miei peccati sono solo miei: mi appartengono”. Redondo Beach è invece un testo malinconico (si narra il suicidio di una ragazza), su un ritmo reggae. I nove minuti di Birdland scoprono le carte. Il testo viene improvvisato in studio sulla base di un racconto di Peter Reich. Canta solo la Smith, la chitarra solista resta rispettosamente da parte. Free Money, frenetico boogie sul rapporto tra amore e denaro, è un’altra cavalcata sfibrante, con Kaye che macina chilometri di rock ‘n’ roll, e la Smith che, con il suo canto febbrile e gutturale, non fa altro che confermarsi una delle migliori interpreti rock di sempre. Kimberly è una ballata tipicamente new wave, con echi sparsi Velvet Underground. In Break It Up c’è e si sente ululare la chitarra di Tom Verlaine. Da apprezzare, sullo sfondo, il lavoro di Sohl. Land è ulteriormente divisa in tre: Horses, un crescendo isterico per voce e sezione ritmica, Land Of Thousand Ballads, puro rock sognante, e La mer(de) continuazione sussurrata a tratti. In Elegie compare anche Allen Lanier alla chitarra, che importa un certo clima solenne e melodico.
Disco d’intensità sconvolgente, Horses è il meno elettrico dei lavori di Smith negli anni 70, ma anche il più convulso, originale e punk, nonché il più “avanti” per attitudine. Già, perché dal palco Patti Smith è sempre riuscita a magnetizzare il pubblico. “È capace di generare più intensità con un solo movimento della mano di quella che la maggior parte degli artisti rock saprebbero produrre nel corso di un intero concerto”, scrisse Charles Shaar Murray su “New MusicalExpress”.
Radio Ethiopia e gli anni ’80
I riferimenti prediletti della Smith sono i cantici di Allen Ginsberg, la recitazione jazz di Jack Kerouac, le liriche di Williams Burroughs. Ma il suo vero maestro maudit è Arthur Rimbaud, “il primo poeta punk”. A lui è dedicato il secondo album, Radio Ethiopia. Etiopia perchè fu la seconda patria di Rimbaud. Se Horses è un disco ruvido e dirompente, Radio Ethiopia è amalgamante (spero che l’Accademia della Crusca me lo accetti…), il punk, feroce e straziato, si fonde con la solennità.
La chitarra di Lanny Kaye e la voce gutturale e lancinante della Smith marchiano a fuoco Ask The Angels, Redondo Beach, si butta su sonorità quasi reggae, non disdicendo boogie indiavolati, come Pumping My Heart. Il genere di cantilena free-form lanciato nell’album d’esordio torna nella cupa e struggente Ain’t It Strange, intonata in quel suo registro dannatamente oscuro e seducente, o nella più quieta Distant Fingers. Il climax “mistico” del disco sono i quasi cinque minuti di Pissing In A River: a dispetto del titolo, è un’elegia cupa e solenne.
Ma per il mito bisogna attendere il terzo LP del 78, Easter. Because The Night (scritta insieme a Bruce Springsteen) ne è il singolo-trainante, terzo centro consecutivo per la cantautrice di Chicago. Nonostante Patti l’abbia in seguito quasi rinnegata come “commerciale”, è una canzone possente e magnetica, che unisce al meglio vena melodica e fervore rock. Altra ballata commovente del disco è la mesmerica Ghost Dance, incentrata sul dramma e sulla “resurrezione” dei nativi americani. La produzione di Jimmy Jovine smussa alcune asprezze del suo sound, rendendolo più “musicale” e comunicativo, anche se, inevitabilmente, meno selvaggio. Esempio di questo nuovo corso sono due pezzi di quasi hard-rock classico, come Till Victory e Space Monkey.
Ma il tipico rock’n’roll anfetaminico della Smith torna a trionfare in Rock ‘n’ Roll Nigger. All’interno del disco, spiccano la foto di una bandiera americana (che desterà polemiche) e l’immagine da bambino di Arthur Rimbaud, eterno ispiratore dell’arte di Patti.
Il trionfo viene bissato un anno dopo con Wave. La psichedelica Dancing Barefoot (ripresa anche dagli U2) e l’intensa ballata di Frederick, dedicata a Fred “Sonic”, il marito della Smith, che morirà non molto tempo dopo, sono i brani trascinanti del nuovo lavoro. Suggestiva anche la cover di So You Want To Be (A Rock ‘n’ Roll Star) dei Byrds.
Lo stile di Patti Smith
Lo stile di Patti Smith ha segnato un solco profondo nella storia del rock. I suoi ululati da belva in gabbia, i suoi acuti dirompenti, i suoi lamenti da moribonda in preda agli ultimi spasmi hanno affondato definitivamente la tradizione del “bel canto”, aprendo la strada a una nuova interpretazione, ruvidamente “punk” del ruolo di cantante.
Il suo messaggio è stato spesso confuso. Ha dichiarato che i suoi tre poeti americani preferiti erano Jim Carroll, Bernadette Mayer e Mohammed Alì. Ha proclamato migliori performer di tutti i tempi Mick Jagger, Cristo e Hitler, per la loro capacità di trascinare le masse. Ha cercato conforto nel Cristianesimo post-Concilio Vaticano II (Papa Luciani, il suo preferito, appariva all’interno di Wave) e nel Buddhismo. Ha predicato a lungo il rock come “forma di comunicazione delle anime”. E ha lanciato inni populisti, un po’ demagogici, ma pur sempre efficaci, come People Have The Power, l’hit-single estratto dal modesto Dream Of Life, con cui tornò sulle scene nel 1988.
Oggi Patti Smith prega per il Dalai Lama (all’invasione cinese in Tibet ha dedicato 1959, dall’album Peace And Noise). Dice che la “crocefissione di Bill Clinton” per il caso Lewinski è stata la crocefissione della sua generazione, quella della liberazione sessuale.
Gli anni ’90
La sua produzione degli anni Novanta non ha più alcun legame con i suoi grandi capolavori del passato. E se Dream Of Life provava almeno con una ballata come Paths That Cross a risvegliare i fantasmi del passato, i successivi album hanno intrapreso la strada di un mesto declino. Gone Again (1996) prova ancora a imbroccare una ballata con My Madrigal, riuscendovi solo in parte e il resto dell’album affoga in una banalità imbarazzante.
Quello che stupisce è la rinnovata forma di Patti Smith come interprete, testimoniata anche da alcune sue brillanti performance dal vivo. Oltre alla già citata e convincente 1959, però, non resta molto da salvare neanche sul successivo Peace And Noise (1997).
Nonostante i flop dei suoi ultimi dischi, Patti Smith non demorde e torna nel 2000 al grido di Gung Ho. “È una espressione cinese, che indica proprio la voglia di continuare a combattere con entusiasmo”. Gung Ho è un disco di rock classico e vibra, a tratti, di echi degli anni d’oro, grazie anche alle chitarre di Tom Verlaine e Lenny Kaye. One Voice (in memoria di Madre Teresa), la struggente China Bird e Glitter In Their eyes (con Michael Stipe al controcanto) i pezzi più suggestivi del disco.
A 56 anni, Patti Smith pubblica anche la sua prima raccolta di successi – un’antologia di tracce, inediti, classici del suo repertorio, demo, pezzi live e altre rarità, ribattezzata Land (1975 – 2002). Un’opera che raccoglie brani ormai leggendari del repertorio della “sacerdotessa”, da Gloria a Ghost Dance, da Pissing In A River a Dancing Barefoot, da Ask The Angels a Because The Night, per approdare fino ai successi più recenti: People Have The Power, 1959 e Glitter In Their Eyes. Chiude il primo Cd l’inedita cover di When Doves Cry di Prince. Per i fan più casuali, un più succinto compendio della sua carriera Outside Society uscirà nel 2011.
La pasionaria però è testarda e non vuole proprio fare i conti con l’età e con la fine di un’epoca… Le undici tracce di Trampin’ (2004), scorrono via senza lasciare segni. Musica ben suonata e ben prodotta, dunque. Ma niente più.
Dal 2007 ad oggi…
Il 12 marzo 2007 Patti Smith è stata annoverata tra le celebrità della Rock and Roll Hall of Fame, mentre nel mese successivo pubblica un nuovo album di cover, dal titolo Twelve, in cui si è riappropria di 12 leggendarie canzoni tratte da repertori di mostri sacri quali Jimi Hendrix, Nirvana, Rolling Stones, Jefferson Airplane, Bob Dylan, Neil Young e Stevie Wonder. Si tratta comunque di un episodio trascurabile nella sua discografia, che soffre ormai da diversi anni la mancanza di un nuovo gioiello.
Nel 2008 Patti Smith torna a far parlare di sé in veste di “lettrice” dei propri versi. Merito di The Coral Sea, sensibile requiem postumo per l’amico, Robert Mapplethorpe. Straziante opera di rimpianto e nostalgia, nel solco della grande poesia americana post-beat generation, questo lungo poema scritto dalla Smith è diventato nel 2005 una performance, rappresentata dalla cantautrice americana assieme a Kevin Shields dei My Bloody Valentine, che ha musicato con chitarra e tastiere la lettura del testo. Un doppio cd raccoglie queste performance.
The Coral Sea descrive gli ultimi giorni di sofferenza della malattia di Mapplethorpe con visioni, urla, confessioni, riflessioni escatologiche recitate, rivissute sopra oceani di layer sonori.
Per il pubblico italiano va ricordata la sua apparizione al Festival di Sanremo, infatti nel 2012 Patti Smith viene invitata come ospite a condividere il palco con i Marlene Kuntz al festival della canzone italiana. L’inedita coppia propone Canzone per un figlio, che i Marlene presentano in concorso, una toccante Impressioni di settembre (della PFM) e la celebre hit Because The Night. Ne risulterà uno dei momenti più emozionanti della storia del festival sanremese.
Patti Smith Banga
A giugno dello stesso anno la Smith pubblica Banga, che segna il ritorno verso una più canonica forma canzone. L’album è un susseguirsi di omaggi a personaggi del presente e del passato: che si tratti di persone care a Patti o mai conosciute poco importa, quello che ne esce è sempre frutto di una scrittura brillante, profonda e illuminata con pochi uguali nella scena musicale contemporanea.
Dal punto di vista squisitamente musicale, Banga si impone come uno degli album più orecchiabili di Patti Smith, senza che la sua accessibilità vada ad inficiare la qualità del materiale proposto.
Banga è un gran bel lavoro, da ascoltare, da leggere, da approfondire, da vivere, da condividere. Senz’altro il suo miglior disco di canzoni dal 1979 ad oggi, condito da un esaustivo libretto interno e dalla presenza dei fedelissimi di sempre Lenny Kaye e Tom Verlaine a preservare una volta di più il filo di continuità con il passato.
E poi non venitemi a dire che il rock è roba da uomini!
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