Raoul Vignal - The Silver Veil (2017)

di Lorenzo Righetto

Se a volte vi pare che, almeno in ambito cantautorale, la mimesi della malinconia come stato esistenziale sia appannaggio di grandi vecchi, veri e propri saggi paludati dello spleen, come Mark Kozelek o Matt Elliott, come se si possa ottenere il permesso di essere depressi solo oltre una certa età, ora potete rassicurarvi con le note pietrificate e dolenti della chitarra di Raoul Vignal e col suo "The Silver Veil".
Questo suo esordio è ambientato spiritualmente in una Terra deserta, almeno nella sua parte umana, in una specie di visione solipsistica: gli arrangiamenti aeratili del disco sembrano volare indisturbati da altre onde sonore, in nervose folate ascetiche, tra un picco e l'altro di una muta catena montuosa.

Caduto l'uomo, rimane solo una ricerca estetica immutabile, ispirata a un naturalismo imponente, come se una parete rocciosa fosse una compagna più eloquente di qualsiasi altra persona fisica ("Shadows"). La voce di Raoul, francese di Lione, sembra arrivare da un'eco, accompagnata dalle burrascose ondate percussive, in un saliscendi che può ricordare lo Sturm und drang dell'ultimo Matt Elliott; più spesso, le percussioni sono poco più di accenti nel tempo, un secco rintocco funereo ("Whispers"), che sembra osservare dall'alto le nervose escursioni spirituali e Drake-iane del fingerpicking del cantautore francese.
Il suo fare inquisitorio ("Under The Same Sky", che più ricorda le scenografie color seppia dei Red House Painters) caratterizza "The Silver Veil" con un calore imprigionato in un'algida cornice, che non soggiace mai a dinamiche emotive semplicistiche, come spesso accade ai suoi contemporanei. Un estremo rigore espressivo è in realtà, più che un difetto, il più grande raggiungimento di Vignal, che gli permette di trascendere con maggior profondità la pur mirabile trama delle canzoni ("One") - in questo può ricordare anche il classicismo world ed europeista del compagno di etichetta Stranded Horse ("Bless You", "Dona Lura").

Una volta oltrepassato questo "velo argenteo", Raoul si fa cantore e accompagnatore in una visione spirituale, un limbo di indefinibile appartenenza a vita o morte, muovendosi tra le forme sempre più sfuggenti di uno stilnovismo spettrale ("Side By Side"), in un rincorrersi di metafore che presto sembrano perdere contatto col loro oggetto originario. Le canzoni del disco si muovono infatti dalla volatilità del desiderio romantico (pur espresso con lo spessore inflessibile e flebilmente epico di "Mine") a una più assoluta brama metafisica (che si sprigiona nell'inquietudine di "Whispers"), disegnando un arco esistenziale dai toni imperituri, e soprattutto un mondo interiore ed esteriore dalle regole fisiche chiare ed esplicite.
Presto le canzoni di Vignal diventano piccole esperienze di investigazione spirituale, in cui perdersi a ricercare tracce, a sentire il vento, trascendendo spesso anche l'esperienza musicale in un vero mesmerismo dell'anima (le vertigini irrefrenabili della title track). Un disco davvero più vasto e profondo della sua estetica, non a caso, laconica ed essenziale, che proietta Raoul Vignal tra i nomi più rilevanti apparsi nel nostro Continente e non solo negli ultimi anni.

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