Syd Arthur – Apricity (2016)

di Massimiliano Manocchia e Blackswan

Il luogo di provenienza dei Syd Arthur – Canterbury - è tanto ingombrante quanto (almeno sulla carta) garanzia di qualità e originalità. Prodotto da Jason Falkner, collaboratore, fra gli altri, di Beck, Air e Travis, “Apricity” (termine anglosassone da tempo in disuso che sta a significare il “calore del sole”) è già dal titolo opera che sa essere singolare e al contempo classicamente canterburiana senza ostacolanti limiti derivativi. Eppure i Syd Arthur (nome che omaggia due campioni della psichedelia, i compianti Syd Barrett e Arthur Lee), pur facendo riferimento, almeno geograficamente, a grandi gruppi di genere, come Caravan e Camel, ripropongono quelle leggendarie sonorità seventies con piglio moderno, inclinazione pop e variazioni psych rock. Il risultato della commistione, è un accattivante rock progressive spogliato dai paludamenti del tempo e dalle grisaglie intellettuali del genere, in cui l’accento pop, declinato ovviamente con pronuncia british, rende agile la materia, rendendola fruibile anche a un pubblico non abituato alla complessità del genere. Abbandonati progressivamente alcuni ammiccamenti jazzy che facevano capolino nel precedente Sound Mirror e circoscritte allo stretto necessario le aperture psichedeliche, i Syd Arthur hanno definitivamente cristallizzato il loro suono, avviandosi verso una rilettura mainstream del prog rock, che favorisce la sintesi melodica a discapito di lunghe digressioni strumentali. Niente suite, come da miglior tradizione anni ‘70, o brani dal consistente minutaggio, ma canzoni, invece, che si attestano sulla durata massima di quattro minuti, e che, pur utilizzando un linguaggio elegante e strutturato, suonano dirette e immediatamente riconoscibili grazie a irresistibili ganci melodici. Un progressive 2.0, snello ma non annacquato, sostenuto, talvolta, da ritmiche sincopate (il tempo in levare dell’iniziale Coal Mine), curato nelle sfumature e abile nel mantenere le distanze da intenti manieristici e da sterili copia incolla.

Josh Magill, il nuovo batterista che ha sostituito Fred Rother, pare aver portato un tocco di freschezza pop alla comunque complessa architettura sonora, in particolare nell’iniziale e già citata Coal Mine e nella successiva Plane Crash In Kansas, due delle tracce più immediate e per certi versi fuorvianti rispetto al tono generale dell’album. Rimarchevole il lavoro di Raven Bush (per inciso: nipotino di Kate – sì, proprio lei) agli archi e alle tastiere: la strumentale Portal è farina quasi esclusiva del suo sacco, e quello che forse è il brano migliore del lotto, Into Eternity, dimostra che nella famiglia Bush il talento è parte integrante del DNA.

L’apparente immediatezza del disco è però ingannevole. Apricity necessita infatti di svariati ascolti per essere apprezzato nelle sue spesso preziose sfumature, e se nei suoi momenti più deboli (Seraphim e il singolo Sun Rays) può risultare tedioso, nondimeno nel complesso suona ben fatto e inocula nell’ascoltatore il siero della speranza in una rinascita di un certo pop colto. In definitiva, i Syd Arthur riescono nell’intento non facile di gettare un ponte fra due stagioni musicali, all’apparenza distanti, ma qui accostate in modo seducente. Nonostante qualche incertezza nella scrittura, che ci tiene lontano dal massimo dei voti, non possiamo però astenerci dal sottolineare lo sforzo creativo di una band che, pur tenendo un piede in un lontano passato, è capace di guardare al futuro con disinvolta efficacia. (Mia valutazione: Distinto)

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