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Visualizzazione dei post da agosto, 2024

Just Playing My Axe - Buddy Guy (1968)

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Con la sua vocalità urlata ed estroversa che incorporava i dattami del gospel, con il suo chitarrismo fluido e di una scioltezza melodica insolita per i suoi tempi, con gli stacchi funky dei fiati, con un sound corposo e una tendenza a vestirsi in modo eccentrico per attirare l'attenzione, Buddy Guy è stato un piccolo eroe del blues moderno, ponte tra il vecchio e il nuovo, e, se vogliamo, anticipatore di una porzione di rock, come dimostrano i molti omaggi a partire da quello, storico, dei Fleetwood Mac, che lo invitarono a suonare in Blues jam at Chess. (M. Cotto - da Rock Therapy)

Fontaines D. C. - Romance (2024)

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 di Fernando Rennis I Fontaines D.C. di Romance. Scegli la vita. Scegli il rock and roll, morto invano. Scegli una direzione. Ma, attenzione, perché potrebbe risultare spiacevole. Proprio lì, in metro, mentre sembra andare tutto per il verso giusto, con la tua ambizione che brucia ancora come quando si dormiva in due nello stesso letto perché i soldi non c’erano. Quando provavi dietro al pub e lì ci arrivavi percorrendo un tappeto di siringhe in un oscuro vicolo. Anni dopo – con alle spalle tour mondiali, due Brit Award, nomination ai Grammy, Mercury, tre dischi arrivati rispettivamente al nono, al secondo e al primo posto – eccoti in una stazione di Londra nel bel mezzo di una crisi di panico. Scegli di metterla dentro un brano, un brano puntellato dalla fame d’aria, mentre Strawberry Fields si accartoccia sul trip hop dei Massive Attack  accelerato e inacidito dalle gocce del limone in copertina degli Stone Roses, sporco della sabbia di una chitarra e clavi che rimbombano in una Plaz

Counting Crows - Saturday Nights and Sunday Mornings (2008)

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di Silvano Bottaro “Sono un ebreo americano di origine russe che recita la parte di un afro-giamaicano. Quello che vorrei essere è un indiano, ma finirò per essere un cowboy” A distanza di quasi sei anni dall'ultimo album “Hard Candy" (2002), sono tornati con un nuovo disco i Counting Crows. Questo quinto album in studio, arriva quindici anni dopo il bellissimo e fortunato "August and evrything after" (1993), si chiama Saturday nights and Sunday Mornings, e ci propone il consueto mix di rock, rock acustico e influenze country, il tutto coniugato dalla voce inconfondibile del leader della band Adam Duritz. Il disco è fondamentalmente diviso in due parti: quella dedicata al caos dei “Sabati notte” quando "si commettono i peccati", parte più elettrica e quella più calma, dedicata alla malinconia delle “domeniche mattina” quando invece "si pente", parte più acustica. I suoni del disco sono probabilmente ancora un po’ troppo in coerenza con g

Kiely Connell - My Own Company (2024)

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di Marcello Matranga Volendo farla breve si potrebbe scrivere semplicemente brava. In realtà Kiely Connell, brava lo è davvero. Già lo aveva palesato con l’album d’esordio, quel Calumet Queen pubblicato nel 2021. Ma che arrivasse a questi livelli non era semplice immaginarlo o profetizzarlo. Sì perché questo My Own Company esce già favorevolmente accolto a prescindere, e questo grazie alla produzione di Tucker Martine, uno che raramente sbaglia un colpo. A questo si aggiungano gli ottimi musicisti in studio che vanno da Andrew Borger alla batteria e percussioni, in passato a fianco di Tom Waits ma anche di Norah Jones, il basso di Nate Query (The Decemberist), Drew Kohl che si dedica a chitarre elettriche, mandolino, armonica, piano ed organo, Heather Woods Broderick al cello e John Hyde alla pedal steel. Last but not least, il fatto che la Thirty Tigers distribuisca il disco, per quanto poco voglia dire, però denota che l’artista è meritevole di attenzione per conoscere il suo nome e

Elio e le storie tese

Gli Elio e le storie tese rappresentano un caso a parte nella storia del pop italiano. Confusi inizialmente nel calderone della cosidetta "musica demenziale", nel corso degli anni '90 sono diventati vero e proprio fenomeno di costume, imponendosi come una delle band più irriverenti e originali del panorama nazionale. Discografia e Wikipedia

Forever Young - Bob Dylan (1974)

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Bob Dylan non è solo un artista e un premio Nobel. Bob Dylan è chiamare le cose con il loro nome, tenere la mente in movimento, è aprire le finestre, uscire senza ombrello quando piove. Lo è sempre stato, soprattutto un tempo quando la pioggia cadeva dura, i tempi cambiavano e le pietre rotolavano. Bob Dylan è giocare a nascondino e poi dire come quando eravamo piccoli, "tela libera tutti". E po ricominciare a giocare, felici perché, come dice lui, "saremo per sempre giovani". Forever Young è uno struggente, incorrotto canto di vita nel nome della giovinezza. Dylan lo scrisse in Arizona per il figlio Jesse, "cercando di non essere troppo retorico e sentimentale". Non lo è, ma fa piangere egualmente. (M. Cotto - da Rock Therapy)  

Thin Lizzy - Black Rose: A Rock Legend (1979)

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Phil Lynott non è alla vista il classico irlandese: carnagione scura, capelli afro, figlio di Philomena, irlandese, e Cecil, guyanese di passaporto brasiliano che all’età di tre anni si trasferisce a Dublino. Avrebbe una voce perfetta per il soul, ma si innamora al nascente hard rock tanto che a 17 anni fonda la prima band, siamo nel 1968, insieme all’amico batterista Brian Downey, a nome Orphanage. Quando si unisce un signor musicista, Eric Bell, che faceva parte dei Them di Van Morrison, il trio sceglie come nome un ricordo d’infanzia: la scelta cade infatti sul nome di uno dei protagonisti dei fumetti The Dandy, uno dei più antichi almanacchi di fumetti del mondo, che si chiamava Tin Lizzie, cambiandolo in Thin Lizzy, con quella “h” a sottolineare l’accento irlandese che pronuncia tin come thin. Il trio comincia a farsi notare e va a suonare anche a Londra. Nel 1971 pubblicano per la Decca il primo album, Thin Lizzy,  e nel 1972 pubblicano il primo singolo di successo, un traditiona

Davide Van De Sfroos - Pica! (2008)

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di Silvano Bottaro Davide Bernasconi in arte “Van De Sfroos” classe 1965, inizia una decina d’anni fa, la sua carriera da solista, realizzando il cd “Breva & Tivan”, disco d’oro, con cui vince la Targa Tenco come “miglior autore emergente”, e quasi contemporaneamente viene pubblicato il mini-cd, “Per una poma”. Nel 2001 pubblica “…E Semm partii”, che gli vale il secondo disco d’oro e la Targa Tenco come “miglior album in dialetto”. Nel gennaio del 2003, esce “Laiv”, come preannuncia la “storpiatura inglese”, un album che diventerà disco d’oro, quasi interamente registrato dal vivo. Infine l’ultimo album d’inediti “Akuaduulza”, 14 brani di storie, leggende, tradizioni di “acqua dolce”. Dopo tre anni di attesa è uscito ora; “Pica!” (che in dialetto laghèe significa “picchia”), esclamazione che accompagnava il lavoro dei minatori di Frontale (frazione di Sondalo, comune dell’Alta Valtellina). Il disco è composto da quindici canzoni, di cui dodici cantate in dialetto e le resta

Billy Cobham - Spectrum (1973)

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Non si poteva terminare il piccolo racconto del jazz fusione davisiano senza imbattersi in lui. In parte è già successo, perchè è il suo battere unico e riconoscibile che scandisce alcuni dei più grandi dischi del genere. Ci vollero infatti pochi anni a Billy Cobham per imporsi subito come uno dei grandi solisti della batteria, e per diventare negli anni uno dei riconosciuti grandi interpreti dello strumento, non solo in ambito jazz. Nasce a Panama, ma dopo pochi anni si trasferisce con la famiglia a New York. da giovanissimo si innamora della batteria, si diploma all' High School of Music and Art, nel 1962 (quando ha 18 anni) ed inizia a suonare nei locali. Viene arruolato, ma per vari motivi non parte mai per nessun fronte di guerra americano; passa però molto tempo nella banda musicale dell'esercito, con cui gira per mesi tutta l'America e non solo. Nel 1968, una volta finito il servizio, inizia a suonare con grandi del jazz: il primo a scoprirlo fu Horace Silver, con cu

Cristina Donà

Tra le protagoniste del nuovo cantautorato femminile degli anni '90, Cristina Donà (1967) merita un posto di rilievo per l'intensità della scrittura, la capacità di coniugare brillantemente l'attenzione per le parole tipica della canzone d'autore italiana con un bel moderno approccio rock, e infine - caratteristica niente affatto secondaria - per la buon accoglienza critica anche al di la dei confini nazionali. Discografia e Wikipedia

Dark Star - Grateful Dead (1969)

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Ci sono brani che contengono infinite emozioni e brani che sono contenitori di un mondo e di uno stile, oltre che di altre canzoni e suggestioni. Dark Star è certamente una delle frecce più belle scagliate dai maghi Grateful Dead, ma è anche la loro canzone recipiente, il veicolo per le loro improvvisazioni e per gli esperimenti che allargavano le pareti strutturali del brano oltre ogni immaginazioni. La versione più estesa nella storia dei Dead è quella relativa al concerto alla Public Hall di Cleveland del 6 dicembre 1973, lunga 43'27", in realtà esiste anche una versione di 63'51", ma è da ascrivere al progetto Mickey and the Heartbeats, quindi non con la band al completo. (M. Cotto - da Rock Therapy)  

The Mahavishnu Orchestra with John McLaughlin - The Inner Mounting Flame (1971)

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Mahavishnu: nella religione induista è uno dei nomi di Vishnu, e vuol dire all'incirca Divina compassione, potere e giustizia. Fu il maestro spirituale Sri Chinmoy, una delle figure più carismatiche e importanti nella diffusione delle filosofie indù in Europa e negli Stati Uniti, a dare questo nome al nuovo progetto di John McLaughlin. Il chitarrista era agli inizi degli anni '70 la nuova stella della chitarra jazz, uno dei personaggi decisivi e più incisivi nella nascita della jazz fusion. Era già famoso per il suo virtuosismo quando nella seconda metà degli anni '60 arriva negli Stati Uniti, dopo aver svezzato un'intera generazione di chitarristi inglesi (primo fra tutti un certo Jimmy Page). E fu quasi per caso che appena prima delle registrazione di In A Silent Way (1969): McLaughlin era negli USA da poche settimane per registrare con il fido batterista del secondo quintetto di Miles Davis, Tony Williams (il disco era Emergency! in power trio Williams, McLaughlin e

Willy De Ville - Pistola (2008)

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di Silvano Bottaro In trenta anni di carriera, De Ville ha inciso 15 album (antologie escluse), e dopo quattro anni da “Crow Jane Alley” incide questo lavoro “Pistola” (chissà perché in italiano) confermando ancora una volta il suo personale stile musicale. L’album anche se con qualche discontinuità, e quindi imperfetto, conserva lo spirito del musicista misterioso, enigmatico e sorprendente. De Ville, pirata metropolitano non solo nella fisicità ma soprattutto nella sua musica, “rapisce” i generi più diversi che sono il blues, il rhythm blues, il cajun, il rock’n ‘roll e li mischia allo stesso tempo con il soul e il sound gitano, sonorità che indiscutibilmente gli appartengono e che sono diventate il suo marchio di fabbrica. I dieci brani che compongono l’album anche se tra loro eterogenei, sono legati da un filo conduttore che è: la sua profonda voce e l' arrangiamento geniale, entrambi dimostrazione della sua grande personalità. Willy a cinquantatre anni continua

Family - Anyway... (1970)

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Il filo rosso delle storie di musica di Marzo nasce per puro caso, mentre stavo ripulendo il mio scaffale dei dischi. Sul tavolino erano allineate tre copertine, finite per caso lì, che avevano la strana coincidenza di essere accumunate da un particolare niente male, cioè usavano in tutto o in parte un famoso dipinto del Rinascimento come cover. Mi è partita quindi la curiosità di indagare un po’ più a fondo ed ecco le scelte marzoline. Iniziamo dalla prima, uno di quei tre dischi che accennavo prima. In copertina ha un particolare nientemeno che di un disegno di Leonardo da Vinci, conservato alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, che raffigura Mortai Con Proiettili Esplosivi, databile al 1485. Gli autori di questa scelta erano uno dei gruppi più interessanti del periodo, e sono una di quelle band che nella mia lista di quelle “fenomenali ma di poco successo” (almeno nella memoria rispetto ad altre) stanno nei primi posti. Tutto inizia al Leicester Art College quando si formano i Farina

Dik Dik

Lanciati come la risposta milanese a Equipe 84 e Nomadi, i Dik Dik hanno rappresentato l'ala più morbida del baet italiano degli anni '60, con una musica dolce e orecchiabile che preferiva pescare per l'ispirazione (e le cover) nel folk pop californiano, o nel serbatoio dell'allora non ancora famosissima coppia Mogol-Battisti, piuttosto che nel ruvido r'n'b inglese. Discografia e Wikipedia

Station to Station - David Bowie (1976)

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Station to Station è il prodotto più ammaliante e al tempo stesso alienante del Thin White Duke, incarnazione artistica e travestimento singolare del Bowie di metà anni settanta: elegantissimo, una via di mezzo tra uno zombie immorale e un aristocratico decadente e un po' pazzo. Odioso, senza emozioni, lontano dal mondo, com'è Bowie in quei giorni, nella follia di Los Angeles, sempre più magro e ossessionato da tutto e tutti, distrutto da una dieta ssurda a base di sigarette, peperoni e latte che lo porta a perdere peso fino ad arrivare sotto i 45 chili. Bowie si trasferisce a Los Angeles nel 1975 e trasforma la sua esistenza in qualcosa ai confini della realtà. Vive barricato in una villa di Bel Air, rischiarata solo da candele nere. (M. Cotto - da Rock Therapy)  

Johnny Blue Skies & Sturgill Simpson - Passage du desir (2024)

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 di Fabio Cerbone  Si scrive Johnny Blue Skies, si legge sempre Sturgill Simpson. Fedele all’immagine di “rinnegato” della scena country di Nashville, “espatriato” da quella terra di talenti che è diventato il Kentucky, Simpson convalida l’impressione di un musicista combattuto con il suo ruolo, incapace di restare fermo in una posizione, costantemente alla ricerca di uno scostamento che spiazzi prima di tutto se stesso e quindi il pubblico che lo segue. Aveva promesso di chiudere la carriera nel nome di Sturgill Simpson con il racconto Americana del precedente The Ballad of Dood & Juanita, disco breve che tornava all’essenza più roots della sua scrittura, e così è stato: cinque album, esclusa la parentesi bluegrass di Cuttin’ Grass, reinterpretazione di vecchi brani in chiave country rurale, per dire quello che doveva dire, e adesso è il turno di Johnny Blue Skies. L’artificio serve soprattutto all’autore, ma la sostanza musicale non cambia radicalmente, o forse sì: avendo debutta

Jeff Buckley - Grace (1994)

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di Silvano Bottaro Grace è l’unico disco completo che Jeff Buckley ci ha lasciato in sua memoria, prima che un destino dannato lo prendesse con se. Morì infatti, annegato nel maggio del 1997. Dal padre Tim , uno dei più grandi cantautori del secolo scorso, oltre alla morte prematura, ha preso in eredità la grandissima dote vocale. Il disco è composto da dieci brani di forte impatto, non solo vocale ma anche spirituale. La canzone d’apertura “ Mojo Pin ” è un’alternanza variegata che va dai sussurri alle grida, senza violenza e con sentimento Buckleyiano . "Grace" ci fa sentire le doti musicali di cui il nostro è in possesso. E lo si percepisce soprattuto dalle sue performance vocali. “ Last Goodbye ” è l’esempio di come un brano “leggero”, cantato da Jeff diventi di spessore. “ Lilac Wine ” è tra i brani più spirituali del disco, la malinconia e la dolcezza dell’interpretazione lo fa avvicinare allo stile del padre. “So Real” ci porta agli antipodi rispetto al

Arooj Aftab - Night Reign (2024)

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 di  Alberto Campo Avevamo intercettato Arooj Aftab nel 2021, a braccetto con il Principe Avvoltoio citato nel titolo del disco contenente “Mohabbat”: brano che le valse l’apprezzamento dei media (“Maggiore rivelazione musicale dell’anno”, secondo “The Guardian”), l’ammirazione di Barack Obama, numeri impressionanti su Spotify (oltre sei milioni di ascolti) e in seguito un Grammy Award. Arroj Aftab onquistò in quel modo i palchi dei grandi festival, da Coachella a Glastonbury, e fu scritturata dalla Verve, marchio impresso lo scorso anno su Love in Exile, lavoro firmato insieme a Vijay Iyer e Shahzad Ismaily, entrambi ospiti ora in Night Reign. Elemento di snodo fra i due album è “Last Night”, canzone ripresa qui in versione differente: se in Vulture Prince sfociava nel reggae, adesso fluttua viceversa in un’ambientazione nottambula da jazz club, animata dal pulsare del contrabbasso su cui volteggia un flauto e decorata dal Wurlitzer manovrato sullo sfondo da Elvis Costello, altro suo

Ivan Della Mea

Tra i più importanti esponenti della canzone politica italiana, Ivan Della Mea è stato attivo protagonista di quell'esplorazione del folklore e della tradizione popolare rivista in ottica militante che ha visto come protagonisti personaggi quali Fausta Amodei, Emilio Liberovici, Paolo Pietrangeli, Giovanna Marini e Michele straniero. Discografia e Wikipedia

Astral Weeks - Van Morrison (1968)

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Ogni volta che la musica irlandese si ubriaca di spiritualità e genio, puoi stare certo che dietro il bancone c'è Van Morrison, il Cappellaio Matto di Belfast, l'uomo delle favole che ha raccontato parabole sacre e profane, discorsi inarticolati del cuore, visioni meravigliose delle strade sonore dell'isola a forma di smeraldo. Difficile cogliere il fiore più bello nella sua serra. Mi concentro su un album Astral Weeks, imprescindibile per chiunque ami la musica rock. Lester Bangs lo ha definito l'album più importante della sua vita, Greil Marcus ha detto che non ha mai smesso di ascoltarlo da quando si è innamorato del rock. (M. Cotto - da Rock Therapy)  

Hannah Frances - Keeper Of The Shepherd (2024)

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 di Gianfranco Marmoro E’ un’autrice decisamente temeraria e non proprio convenzionale, Hannah Frances, giovane musicista di Chicago che sembra aver finalmente trovato l’equilibrio giusto per una proposta che si inserisce più nel progressive-folk che nello scenario cantautorale post-Joni Mitchell. Non che l’autrice rinunci alla spartana messa in scena acustica tipica del folk e del country, ma è percepibile un’inquietudine che appartiene più alle escursioni antropologiche e ancestrali dei Pentangle, le quali tengono alta la tensione della splendida ballata “Woolgathering” vestendola di eleganti arie folk-prog-jazz con violoncello e clarinetto al seguito. Con identica trepidazione Hannah Frances affronta questioni irrisolte del passato che non troveranno mai risposta al suono di accordi gentili eppur aspri e una voce straziata dal dolore che ricorda Thom Yorke in “Floodpain”. “Keeper Of The Shepherd” è un disco che rinuncia alla prevedibilità, esplorando il lato oscuro della musica coun

E T I C H E T T E

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