Johnny Blue Skies & Sturgill Simpson - Passage du desir (2024)
di Fabio Cerbone
Si scrive Johnny Blue Skies, si legge sempre Sturgill Simpson. Fedele all’immagine di “rinnegato” della scena country di Nashville, “espatriato” da quella terra di talenti che è diventato il Kentucky, Simpson convalida l’impressione di un musicista combattuto con il suo ruolo, incapace di restare fermo in una posizione, costantemente alla ricerca di uno scostamento che spiazzi prima di tutto se stesso e quindi il pubblico che lo segue. Aveva promesso di chiudere la carriera nel nome di Sturgill Simpson con il racconto Americana del precedente The Ballad of Dood & Juanita, disco breve che tornava all’essenza più roots della sua scrittura, e così è stato: cinque album, esclusa la parentesi bluegrass di Cuttin’ Grass, reinterpretazione di vecchi brani in chiave country rurale, per dire quello che doveva dire, e adesso è il turno di Johnny Blue Skies.
L’artificio serve soprattutto all’autore, ma la sostanza musicale non cambia radicalmente, o forse sì: avendo debuttato con tale pseudonimo nel cameo vocale di Use Me (Brutal Hearts), singolo dance dello scorso anno di Diplo (Simpson prestava la voce all’attore Sean Penn, presente nel video ufficiale) ci si poteva aspettare di tutto e di più da questo Passage Du Desir, che invece fin dalle tenui coloriture southern dell’iniziale Swamp of Sadness pare tornare sui passi interrotti di Metamodern Sounds in Country Music e A Sailor’s Guide to Earth, ovvero sia i dischi più importanti e più premiati del nostro protagonista.
Gli otto brani, con la drammatica Jupiter’s Faerie e nel finale la fuga chitarristica di One for the Road che giungono oltre i sette minuti di durata, si riagganciano naturalmente a quel discorso sonoro, in una miscela di country psichedelico che si scioglie tra carezze soul e languori blues, in questa occasione ricoperto anche da una patina di pop d’autore tipicamente immerso in certe suggestioni anni Settanta, le stesse che Johnny Blue Skies utilizza per enfatizzare i tratti interiori, tormentati, vagamente filosofici, delle liriche.
La differenza è che, lasciati fuori dalla porta i fiati e gli accesi colori r&b e southern dei lavori citati in precedenza, Passage du Desir si rivela un disco molto più addomesticato, in alcuni momenti persino troppo schiacciato sulle blandizie degli archi e di un fare indolente che si traduce in blues laccato (If The Sun Never Roses Again) e ritmiche che portano il cosmic country verso il freddo riflusso degli anni Ottanta (Right Kind of Dream), togliendo qualche volta vigore alla voce baritonale dello stesso Sturgill.
Registrato con lo storico collaboratore di Johnny Cash, David Ferguson, tra il Clement House Recording Studio di Nashville e gli Abbey Road di Londra, l’album soffre in alcuni momenti la mancanza della passata direzione di un produttore come Dave Cobb, oltre alla spinta della band che accompagna Simpson dal vivo, lasciando così più spazio alle atmosfere e alle suggestioni di Johnny Blue Skies, che guarda caso trovano la chiave di lettura migliore quando riprendono i fili del romanticismo outlaw alla Waylon Jennings in Who I Am, oppure offrono nuove prospettive alla tradizione nashvilliana in Mint Tea o ancora accennano un groviglio di pigro country rock degno di JJ Cale in Scooter Blues.
Per alcuni (quasi tutti) questa visione sonora è il segno tangibile dell’indipendenza e quindi di un valore “a prescindere” dell’intera operazione denominata Johnny Blue Skies, tanto è vero che le lodi si stanno già sprecando; vista da qui invece ci sembra un po’ troppo ondivaga, a tratti illuminante e subito dopo confusa, con alcuni giri a vuoto che ne intaccano, almeno in parte, la potenziale forza.
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