Arooj Aftab - Night Reign (2024)
di Alberto Campo
Avevamo intercettato Arooj Aftab nel 2021, a braccetto con il Principe Avvoltoio citato nel titolo del disco contenente “Mohabbat”: brano che le valse l’apprezzamento dei media (“Maggiore rivelazione musicale dell’anno”, secondo “The Guardian”), l’ammirazione di Barack Obama, numeri impressionanti su Spotify (oltre sei milioni di ascolti) e in seguito un Grammy Award.
Arroj Aftab onquistò in quel modo i palchi dei grandi festival, da Coachella a Glastonbury, e fu scritturata dalla Verve, marchio impresso lo scorso anno su Love in Exile, lavoro firmato insieme a Vijay Iyer e Shahzad Ismaily, entrambi ospiti ora in Night Reign.
Elemento di snodo fra i due album è “Last Night”, canzone ripresa qui in versione differente: se in Vulture Prince sfociava nel reggae, adesso fluttua viceversa in un’ambientazione nottambula da jazz club, animata dal pulsare del contrabbasso su cui volteggia un flauto e decorata dal Wurlitzer manovrato sullo sfondo da Elvis Costello, altro suo estimatore celebre.
Era allora l’unico episodio anglofono del repertorio, mentre in questo caso l’eccezione si triplica: ecco dunque una cover della trascrizione americana del classico di Jacques Brel “Les Feuilles Mortes”, trasfigurata in forma quasi spettrale, e soprattutto l’incantevole “Whiskey”, ballata imbastita al chiaro di luna dalla chitarrista Kaki King e dall’arpista Maeve Gilchrist creando una trama evanescente sulla quale la protagonista descrive un rituale di seduzione favorito dall’alcol (“Sono ubriaca e tu sei pazzo, come faremo a tornare a casa?”, s’interroga prima di ammettere: “Credo di essere pronta a soccombere alla tua bellezza e a lasciare che t’innamori di me”).
A proposito della collocazione oraria, premesso che “la notte è la mia principale fonte d’ispirazione”, in una recente intervista al “New York Times” ha spiegato: “Tutti hanno un aspetto migliore nella penombra, preferisco non dover vedere le persone di giorno”.
Quanto all’influenza del jazz, invece, immaginiamo sia dovuta al ciclo di studi affrontato al Berklee College of Music di Boston, subito dopo essere sbarcata negli Stati Uniti: mai era affiorata in passato così evidentemente, tuttavia. Eppure i legami con le origini non sono affatto recisi e si manifestano nell’antica poetica ghazal dei componimenti di Mah Laqa Bai Chanda, cortigiana e letterata Urdu del XVIII secolo, musicati nell’occasione: “Na Gul” (“Come può l’ingenuo capire le intenzioni dello scaltro?”, domanda un verso) e “Saaqi” (tipo un haiku: “Esistendo in attesa di sbocciare, ogni gemma si aggrappa alla vita preziosa”).
In coda alla sequenza ne troviamo poi un altro del contemporaneo Shamim Jaipuri, “Zameen”, reso popolare in India dalla diva locale Begum Akhtar: “Senza desiderio, non si ottiene nulla da nessuna parte”, canta Aftab con intensità al culmine emotivo del pezzo.
Benché rispetti la tradizione, non intende comunque rimanerne ostaggio: “Lasciatemi essere me stessa e non l’esponente di una cultura specifica”, la sua rivendicazione. Lo dimostrano nella circostanza “Bolo Na”, illuminato da un sorprendente duetto con Moor Mother in insolita veste confidenziale (“Voglio credere in un amore, in un futuro, voglio credere”), e “Raat Ki Rani”, dove la voce è deformata impercettibilmente dall’Auto-Tune e sotto scorre un ritmo che riecheggia il maracatu brasiliano.
Attraverso la metafora del “gelsomino notturno”, quest’ultimo allude alla figura centrale nella drammaturgia del disco (“La regina della notte prende il controllo e incanta i presenti appena arriva”) e al sensuale gioco di sguardi di cui è partecipe: suggestione restituita con grazia nel video dal sapore “queer” diretto dall’attrice Tessa Thompson.
La sensazione, insomma, è che Night Reign abbia le carte in regola per decretare la consacrazione definitiva della 39enne artista pakistana di nascita e newyorkese d’adozione.
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