Fontaines D. C. - Romance (2024)

 di Fernando Rennis

I Fontaines D.C. di Romance. Scegli la vita. Scegli il rock and roll, morto invano. Scegli una direzione. Ma, attenzione, perché potrebbe risultare spiacevole. Proprio lì, in metro, mentre sembra andare tutto per il verso giusto, con la tua ambizione che brucia ancora come quando si dormiva in due nello stesso letto perché i soldi non c’erano. Quando provavi dietro al pub e lì ci arrivavi percorrendo un tappeto di siringhe in un oscuro vicolo.

Anni dopo – con alle spalle tour mondiali, due Brit Award, nomination ai Grammy, Mercury, tre dischi arrivati rispettivamente al nono, al secondo e al primo posto – eccoti in una stazione di Londra nel bel mezzo di una crisi di panico. Scegli di metterla dentro un brano, un brano puntellato dalla fame d’aria, mentre Strawberry Fields si accartoccia sul trip hop dei Massive Attack  accelerato e inacidito dalle gocce del limone in copertina degli Stone Roses, sporco della sabbia di una chitarra e clavi che rimbombano in una Plaza de toros vuota, tra l’animale e il matador.

Quando un pomeriggio di aprile è stato tranciato di netto da Starburster, suonata in anteprima su BBC Radio One, sono piovuti commenti estasiati. In Romance, quarto album dei Fontaines D.C., il brano arriva dopo l’overture che condensa rimandi ai Depeche Mode e alle atmosfere di Sculpture of Anything Goes degli Arctic Monkeys in una cupa confessione di un meditabondo Chatten: “Nel profondo della notte confido che forse la mia bontà è morta”. Dai minacciosi rintocchi finali della title track iniziale, degni della più funerea ballata di Nick Cave, si levano gli archi lisergici di Starburster.

Come abbiamo anticipato nella nostra intervista con la band, il quarto album dei Fontaines D.C. approfondisce il sound di Skinty Fia, strappandolo dalle viscere oscure di brani come In ár gCroíthe go deo, Bloomsday o Nabokov ed esponendolo alla brezza che sorvola il catalogo 4AD (Pixies, Cocteau Twins), la psichedelia retrò degli Stone Roses, gli R.E.M. di Document, le atmosfere dei Broadcast. C’è l’hip hop, lo shoegaze, chitarre che sembrano uscite dagli anni ’90, strani sintetizzatori giapponesi – molti synth, però, sono stati tagliati dal risultato finale – archi, ritmi dilatati e attorcigliati orchestrati da Tom Coll. Carlos O’Connell si alterna tra la chitarra, tenendo fede alla sua fascinazione per Rowland S. Howard, e i suoi nuovi acquisti: un mellotron e una tastiera. Conor Curly ha trascinato i Fontaines D.C. verso la sua passione per lo shoegaze e ha contribuito alla dimensione cinematografica del disco, da buon amante di Angelo Badalamenti e, in particolare, della colonna sonora di Twin Peaks, e dalla sua stessa vena da compositore, tirata a lucido nel 2021 per un corto.

Chatten ha ridotto le ripetizioni che caratterizzavano brani come A Hero’s Death, cominciato a giocare con le sillabe, accorciando la lunghezza dei versi – dimezzandola rispetto a testi come quello di Boys in the Better Land – e approfondito l’intimismo del precedente album, ampliando l’intreccio tra supposto biografismo e invettiva politica, come succedeva in I Love You. In Here’s the Thing si lancia nel falsetto dei lunghi ritornelli che caratterizzano la canzone, lasciando poco spazio alle brevi strofe, mentre tutto gira attorno al basso di Deego e sembra di girare nevroticamente la manopola della radio americana tra fine ’80 e primi ’90, passando dai riff dei Nirvana ai suoni dei Pixies di The Holiday Song.

“Essere anestetizzati e desiderare emozioni” canta Chatten a un certo punto di Here’s the Thing, che brilla sulla ruggine dei rapporti umani. Il mood non è più ottimista in Desire, che inizia con il verso “Ti hanno progettato in profondità dalla culla alla pira”. Il brano comincia nella coda di Slide Away degli Oasis su un’atmosfera sospesa per poi seguire la pioggia che cade su di una I Wanna Be Adored rallentata e su alcuni momenti di 40 Days degli Slowdive. Ogni tanto fa capolino il Juno, che ricorda il finale di Moonlight, il primo brano di apertura di Everything Not Saved Will Be Lost dei Foals, prodotto da James Ford, già al lavoro, tra gli altri, proprio con i Monkeys di The Car, il disco che la band ha portato in tour con i Fontaines D.C. ad aprire le date americane nell’autunno 2023. Ford siede dietro al mixer di Romance e lo ha fatto anche per The Ballad of Darren dei Blur, che spunta più avanti nel disco.

Prima c’è la bellissima In the Modern World, dove le voci si intrecciano in un ritornello melodrammatico sorretto da archi in cui si riflette l’eco di Say Yes to Heaven, outtake di Ultraviolence che Lana Del Rey ha pubblicato non molto tempo fa. È uno dei testi più criptici dell’album in cui si accenna a un ménage à trois e al fatto, dopotutto, che l’assenza di una sensazione in questo mondo moderno non è così male. “La pioggia mi ha inseguito di nuovo giù per il burrone” canta, invece, Chatten in Bug, pronta ad avvinghiarsi con le sue chitarre alle orecchie di chi ascolta, forte di un incedere e una melodia che mettono in fila The La’s, i Mama and the Papas e gli R.E.M. di The One I Love. Invece, l’inizio di Motorcycle Boy ricorda la malinconica Afraid of Summer dei dimenticati Lost Lander per poi ingigantirsi attraverso una scia psichedelica fino a lambire le atmosfere barocche degli Arcade Fire di Neon Bible. A dispetto del titolo, il testo parla di sogni soffocanti, peccatori, impiccagioni e una folla che canta mentre lega il colpevole. Ancora una volta, è la distanza il tema ricorrente. Quella emotiva, quella fisica. Quella che emerge nelle relazioni: “E’ tutto a posto, lo so. Tu piovi, io nevico. Tu rimani, io vado”.

Sundowner è la canzone che unisce il tema onirico preponderante in A Hero’s Death alle sonorità di Skinty Fia. È un brano circolare, dove ritorna la pioggia che prima cadeva su Manchester e sullo shoegaze. È un ottimo preludio a un altro grande bel momento del disco: Horseness is the Whatness, suggerita all’autore del testo Carlos O’Connell dall’Ulisse di Joyce. Il chitarrista è rimasto affascinato da quella frase sin da quando, in vacanza, si era ripromesso di leggere qualsiasi libro ad alta voce per farlo ascoltare alla figlia, nonostante fosse nata da poco. Un imprinting importante. Dopo tanta oscurità, il brano lascia intravedere un po’ di quella serenità che caratterizza il finale, in cui brilla Favourite. Horseness is the Whatness ricorda le raffinatezze di The Good, The Bad and the Queen e alcune code di The Ballad of Darren. Qui il tentativo è di scoprire qual è la parola che fa girare il mondo. O’Connell pensava fosse “amore” e invece deve ricredersi. Poi, alla fine, arriva a una conclusione: “I fondamenti, credo di aver capito il senso. Non c’è molto da perdere, o scegli o esisti”.

Prima di Favourite c’è un ultimo ruggito aggressivo. Arriva da Death Kink, che si muove ancora su territori Nirvana, riproducendone la dinamica di pieno/vuoto, qui arricchita dalla splendida interpretazione di Chatten. Allunga le parole, le spezza e quando rimane solo in un mare di feedback sul fondale è perfetto. Scrive un testo che sembra speculare a Starbuster, dove si ribadisce che il successo non porta serenità. C’è nuovamente gente da far ridere e una sensazione di malessere, “quando hai detto che ‘so di sonno’, ero morto”.

Ecco, quindi, Favourite, che ha lo stesso sapore di Why Don’t You Find Out for Yourself di Morrissey, mentre gioca ancora sulle atmosfere dei The La’s e trame vocali che prendono ispirazione dagli amati Beach Boys.  Basta prendere a esempio qualche frammento del testo per averne una prova di quanto vissuto condiviso ci sia nella canzone: “È un grido lontano dalle radio da letto e dalle giornate passate a giocare a calcio in casa”. Chatten ricorre all’intreccio di ricordi personali – smaltire trentacinque ore e non accorgersi del sole che rimbalza sulla strada – e temi sociali, nel momento in cui quel “grido lontano” si propagava “when they painted town with Thatcher and they never even wanted to know ya”. Un verso che suona come un’invettiva contro la fredda insensibilità Tory.

La parola più frequente in Romance è “feel”, la seconda “know”. Concettualmente, il disco è racchiuso proprio tra questi due verbi: sentire e conoscere. Si tratta di due azioni che risultano difficili da mettere in pratica in questo periodo storico segnato dalla “permacrisis”, da una iper-connettività digitale isolazionista, da un clima arido sul punto di vista emotivo e ambientale. In tempi bui abbiamo bisogno di storie da ascoltare, sentimenti da provare e luoghi, reali o immaginari, da conoscere.

I Fontaines D.C. – che hanno pubblicato assieme a Massive Attack e Young Fathers l’Ep The ceasefire per Gaza – sono oscuri narratori, malinconici naviganti che ci traghettano verso un futuro incerto. Lo fanno con i loro dischi e durante i loro live che uniscono catarsi e potenza, come può testimoniare chi ha assistito al loro concerto estivo romano, di cui vi abbiamo parlato qui.

Citando il film di Paolo Sorrentino che ha ispirato il testo di In the Modern World, con Romance i Fontaines D.C. ritoccano la loro grande bellezza. L’anno prossimo suoneranno a Finsbury Park e sarà l’occasione giusta per renderci conto ancora una volta di come si stiano prendendo tutto. Ce lo avevano detto sin dall’inizio – “My childhood was small but I’m gonna be big” – e avevano ragione. Quanto a noi, abbiamo fatto bene a crederci.

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