Hannah Frances - Keeper Of The Shepherd (2024)

 di Gianfranco Marmoro

E’ un’autrice decisamente temeraria e non proprio convenzionale, Hannah Frances, giovane musicista di Chicago che sembra aver finalmente trovato l’equilibrio giusto per una proposta che si inserisce più nel progressive-folk che nello scenario cantautorale post-Joni Mitchell.

Non che l’autrice rinunci alla spartana messa in scena acustica tipica del folk e del country, ma è percepibile un’inquietudine che appartiene più alle escursioni antropologiche e ancestrali dei Pentangle, le quali tengono alta la tensione della splendida ballata “Woolgathering” vestendola di eleganti arie folk-prog-jazz con violoncello e clarinetto al seguito. Con identica trepidazione Hannah Frances affronta questioni irrisolte del passato che non troveranno mai risposta al suono di accordi gentili eppur aspri e una voce straziata dal dolore che ricorda Thom Yorke in “Floodpain”.

“Keeper Of The Shepherd” è un disco che rinuncia alla prevedibilità, esplorando il lato oscuro della musica country e folk, quello di cui si sono nutriti artiste come Fiona Apple, Joanna Newsom e Sharon Van Etten. La voce di Hannah Frances è potente, graffiante perfino disturbante. Incurante della funzione estetica del canto, Hannah stritola le note, le urla e le violenta, chiedendo la stessa vibrante verve iconoclasta alla band, ed è da questa struttura quasi free che sbuca un capolavoro di dissonanze come “Vacant Intimacies”, una melodia intensa e distruttiva al pari di Daniel Blumberg o Sarah Mary Chadwick.

Inquietudine e dolore sono una costante non solo dei testi ma anche delle assortite scenografie strumentali, riflessive e solenni al punto da liberare un fiume di dolcezza inatteso e straordinario nella mistica ”Husk”, o fluttuanti e avvezze a dolenti lande post-rock e prog-rock nell’articolata “Bronwyn”.

Non è un disco carezzevole o immediatamente empatico, “Keeper Of The Shepherd”, nonostante la birichina title track in odore di country-pop dove l’autrice cerca di nascondere il dolore per la morte del padre: "Mi stringo al cuore di mio padre, morente tra le mie braccia, sono morta anch'io, sono morta anch'io, ti ho perso, mi sono persa dentro di te". 

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Hannah Frances non cerca in verità il conforto dell’ascoltatore. Soprattutto ora che ha trovato la forza di far emergere la voce al di sopra delle pur complesse strutture strumentali, le parole hanno il sapore della polvere e del vento, mentre la musica è un groviglio di idee e slanci d’immaginazione che sembra non trovare mai pace. Con queste premesse è quasi naturale che i quasi sei minuti dell’ultima traccia “Haunted Landscape, Echoing Cave” vadano ben oltre i confini di quanto finora raccontato, aprendo le porte a influenze progressive-rock più marcate, a avventurose armonie folk e a soluzioni jazz che stravolgono il tessuto strumentale fino a elevarlo all’ennesima potenza.

Nel tentativo di trovare spazio per la propria voce in un caos creativo spesso assordante, Hannah domina una musicalità complessa e selvaggia, in questo si uniforma alla scuola folk di Joni Mitchell (sì, alla fine la cantautrice torna al centro dell’analisi), esaltando più le asperità e la natura intuitiva degli accordi. Torbide, legnose, eppur ricche di aspettative, le canzoni di Hannah Frances sono una vera rivelazione e "Keeper Of The Shepherd" è uno degli album più originali dell’anno.

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