Kiely Connell - My Own Company (2024)

di Marcello Matranga

Volendo farla breve si potrebbe scrivere semplicemente brava. In realtà Kiely Connell, brava lo è davvero. Già lo aveva palesato con l’album d’esordio, quel Calumet Queen pubblicato nel 2021. Ma che arrivasse a questi livelli non era semplice immaginarlo o profetizzarlo. Sì perché questo My Own Company esce già favorevolmente accolto a prescindere, e questo grazie alla produzione di Tucker Martine, uno che raramente sbaglia un colpo. A questo si aggiungano gli ottimi musicisti in studio che vanno da Andrew Borger alla batteria e percussioni, in passato a fianco di Tom Waits ma anche di Norah Jones, il basso di Nate Query (The Decemberist), Drew Kohl che si dedica a chitarre elettriche, mandolino, armonica, piano ed organo, Heather Woods Broderick al cello e John Hyde alla pedal steel. Last but not least, il fatto che la Thirty Tigers distribuisca il disco, per quanto poco voglia dire, però denota che l’artista è meritevole di attenzione per conoscere il suo nome e le sue opere.

Può bastare tutto ciò per rendere interessante questo album. Sì, certo, ma la sostanza sono le canzoni proposte, che beneficiano anche di testi (mettere un libretto che li riporti avrebbe reso la cosa più semplice….) che lasciano trasparire qualità. E allora partire dall’inizio giova per capire subito che aria tira, e Through To You è un bel modo per farlo. Ballatona aperta in cui la voce della nostra è subito centrale, ma altrettanto si può dire della costruzione musicale del pezzo che è molto piacevole. Molto bella e toccante Restless Bones  dove Kiely racconta: “Ricordo ancora di essere entrata a scuola inzuppata dalla pioggia. I suoni stridenti delle mie scarpe inzuppate facevano a gara con l’annuncio all’altoparlante che avevamo perso un compagno di classe”. La canzone è un tributo ad un compagno di liceo che si era tolto la vita. Potrei continuare a sottolineare la bellezza di Coming Up Empty, altro pezzo decisamente convincente. Intendiamoci però: qui restiamo nel campo di un songwriting decisamente “classico”, per quanto molto ben proposto. A smuovere le acque, finora piuttosto quiete, ci pensano Damn Hands e On The Mend che alzano un po i ritmi di un lavoro che risulta comunque piacevole da ascoltare.

Quello che mi giunge poco comprensibile è invece l’accostamento a gente come Lucinda Williams o addirittura Nathalie Merchant, che sinceramente mi sembrano non molto centrati. Ma tant’è. Il consiglio alla fine resta sempre quello di ascoltare un disco evitando di farsi fuorviare da sensazioni altrui, ma di calarsi tra le note traendone proprie conclusioni, e poi, se proprio lo si desidera, andate a leggervi pareri della stampa per suffragare le vostre sensazioni, o meno. Piacevole.

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