La ragazza del soul

“I Never Loved A Man” è un manuale di musica dell’anima firmato Aretha Franklin

«Quando abbiamo registrato questo disco c’era sempre una reazione che non cambiava mai: ogni volta che Aretha cominciava una canzone, i musicisti scuotevano la testa in meraviglia. Dopo correvano in regia per risentirla. Produttori, tecnici, musicisti, eravamo tutti incantati dalla purezza di tono, il feeling ispirato e la sua dinamica senza pari».

Lo scrive sulle note di copertina di “I Never Loved A Man (The Way I Love You)” Jerry Wexler, il produttore e co-titolare della Atlantic che quella voce ha rincorso, e quell’album voluto, con tutte le sue forze. Fino ad allora, Aretha Franklin, 24enne, aveva incantato tutti ma non era riuscita a sfondare veramente. Non erano mai arrivate quelle hit che la facessero diventare una star. Possibile? Sì, e da ben sei anni.

Aretha è un talento precoce, una bambina nata già matura a Memphis, nel 1942. È la figlia di Barbara, una pianista, e di Clarence LaVaughan Franklin, a due anni si trasferisce con la famiglia prima a Buffalo, poi a Detroit dove il padre è Pastore nella New Bethel Baptist Church.

Il Reverendo non è solo un predicatore, è un personaggio: possiede una “million dollar voice”, i suoi sermoni non sono solo parlati ma cantati, e sono anche registrati e trasmessi da diverse stazioni radio, e incisi su disco. Papà è un reverendo sui generis, lo arrestano per possesso di marijuana e le donne gli piacciono parecchio, tanto che mamma Barbara presto fa le valigie, pur rimanendo in contatto.

Casa Franklin è frequentata da artisti gospel come James Cleveland, l’immensa Mahalia Jackson, Clara Ward (che con Clarence avrà una storia), i Caravans, Sam Cooke, il grande pianista jazz Art Tatum.

Clarence ha marciato con Martin Luther King e ha ordinato un giovane Jesse Jackson. Aretha, insieme alle due sorelle, la maggiore Erma e la minore Carolyn, cresce imbevuta di cerimonie e di gospel, e in una versione afroamericana di ora et labora comincia a soli dieci anni a seguire il padre nei suoi tour, ben pagati, per la provincia americana.

Apre lo show, e la sua prima incisione ufficiale, “The Gospel Soul of A.F.”, 1956, viene pubblicata quando non ha ancora 14 anni, ma già rivela la sua estensione vocale, il controllo, la sua carica emotiva. Impara a suonare a orecchio gli accordi base del pianoforte in stile gospel – rimarrà per sempre la sua ancora, quando si alzeranno le tempeste – e parallelamente al gospel comincia a guardare oltre lo steccato, alla musica secolare che in quegli anni ha visto uscire dal gospel e affrontare il mercato “laico” talenti come Sam Cooke, Marvin Gaye, Smokey Robinson.

Aretha è precoce anche nella vita personale, a 16 anni è già mamma-di-due, padri mai svelati, e a 19 incontra Ted White, che da subito diventa il suo manager, la sposa, e nel 1964 la rende mamma per la terza volta.

White beve, frequenta altre donne, e la loro relazione, che andrà avanti per una decina d’anni, sarà turbolenta e manesca. Ma quell’hustler ha una carica notevole, e spinge per sé e per la moglie in modo costante. Aretha scoprirà negli anni quanto sarà difficile liberarsi di quell’intreccio amoroso/professionale.

Vivendo a Detroit sarebbe logico entrare nella scuderia Tamla-Motown, e Berry Gordy la corteggia, ma Aretha non ama quella musica così patinata, pop nero per i ragazzi bianchi, e alla fine il suo destino si incrocia con quello di John Hammond, un signore dell’alta borghesia (erede Vanderbilt) che ha lasciato l’Università per diventare capo dell’A&R della onnipotente Columbia.

Ha già messo sotto contratto artisti apripista, come lo son stati Billie Holiday e Miles Davis, e presto arriveranno Dylan & Cohen, Janis Joplin e Simon & Garfunkel. Quando Aretha firma per la super-Major, sorge l’interrogativo: cosa le facciamo cantare? In quale stile? A quale pubblico?

È la questione intorno alla quale girerà la sua carriera per tutti gli anni di permanenza, senza che Hammond riesca a trovare il bandolo della matassa. Le provano tutte: blues e jazz, pop da famiglia e easy-listening, standard, come se fosse importante farle cantare cose che siano già famose.

Nelle zone medie della classifica ci arriva qualche volta, mai in modo convincente. Alla fine si prova pure a metterla in competizione con la Streisand. Aretha è prigioniera del suo stesso talento: qualsiasi pezzo lei senta, lo canta meglio dell’originale. Quello che manca, è un’identità.

È ormai conosciuta, guadagna bene nelle sue serate fra night-club e teatri, ha vinto il referendum di Down Beat come “più promettente”, è stata già battezzata da un Dj “Queen of Soul”, ma la frustrazione regna sovrana.

C’è una frase che viene usata come un mantra, e suona come una confessione dei suoi discografici: «Tiriamo al muro tutte cose diverse. Vediamo cosa rimane appiccicato». Cade tutto. Alla fine, l’ossessione per “la hit che non arriva mai” manda in confusione reciproca lei, il marketing e i produttori della Cbs, e nel 1966 lascia scadere il contratto, non prima di aver inciso un album, “Unforgettable”, sicuramente il migliore degli anni Columbia, un omaggio alla sua più grande influenza, Dinah Washington, sublime cantante di blues e jazz appena scomparsa.

La Ward e la Jackson come influenze per il gospel, la Dinah e la leggendaria Bessie Smith come cantanti ’secolari’ (e la tempra e il carattere delle due è molto “secolare”), è evidente che Aretha è già con i piedi in due staffe. Ce li terrà per sempre.

Nel frattempo, «I want the hits!» urla, sussurra, digrigna dovunque. La tensione arriva a livelli insopportabili.

Dall’altra parte di New York, c’è una etichetta indipendente che appartiene a due tipi ben assortiti: Ahmet Ertegun è il figlio dell’ambasciatore turco all’Onu, Jerry Wexler è un giornalista di Billboard che ha coniato il termine “Rythm’n’Blues”, diciamo che di quella musica lì qualcosa ci deve capire.

Dal 1953 è con la Atlantic, etichetta specializzata (non sarà in r’n’b?) che ha già lanciato Ray Charles, i Drifters, e la grintosa e bella (e viceversa) Ruth Brown. Non è grande come la Cbs, ma è focalizzata.

Wexler, che segue silenziosamente Aretha da tempo, e sa del rapporto infruttuoso con la Cbs, aspetta e prega. La telefonata arriva, l’accordo con White è trovato velocemente: «Ci piace una etichetta, meglio se più piccola, che creda e si dedichi totalmente a tirare fuori il potenziale di mia moglie».

Wexler intuisce quello che alla Cbs non hanno capito in tanti anni. Sa cos’è la soul music, la fa. In più, la Atlantic ha fatto un accordo con la Stax di Memphis: loro producono singoli ed Lp (quei meravigliosi, santificati, sublimi dischi del loro roster – Otis Redding, Sam & Dave, Booker T., etc), la Atlantic li distribuisce in tutto il mondo.

Lui conosce la roots music meglio dell’urbano Hammond e dei suoi produttori. E sa bene che tutta la musica che ha messo la Atlantic sulla mappa è musica del Sud e ha la sua origine in un solo posto: la Chiesa.

Sa che Aretha viene da lì, quella è la soluzione dell’enigma, aggiungendo però alla sua straordinaria maniera di vivere la trascendenza del gospel la “secolarità”, quindi la sensibilità moderna, le tematiche, il carnale e lo street wise, il groove del r’n’b/soul.

«Anche alla Columbia hanno provato a farle cantare r’n’b, ma erano rimasti a cinque anni prima. La sensibilità era cambiata. Era di strada. Ma loro non producevano quel tipo di suono, non lo conoscevano». Ha davanti la più grande cantante, l’erede di Bessie e Mahalia e Dinah, non le si deve dire nulla. Le va solo creato un suono.

Offre la produzione a Jim Stewart, il patron della Stax, ma per vari impegni declina. Lo prende come un segno, e scende in campo in prima persona. Ted White vorrebbe incidere a New York City, Jerry gli propone di andare a Sud.

Non alla Stax, a questo punto, ma negli studi di Rick Hall, un ex-contadino bianco che ama la musica nera, a Muscle Shoals, Alabama. Ci ha inciso, fra le altre, una versione incandescente di “Hey Jude” cantata da Wilson Pickett con un assolo storico di Duane Allman.

Wexler conosce bene il paradosso di quel posto magico: producono musica nera, ma oltre al Boss tutti i super-turnisti, collettivamente chiamati The Swampers, sono ragazzi di campagna, bianchi. Da Wilson Pickett in poi, tutti i neri che son venuti a incidere sono rimasti basiti. Loro ormai c’hanno fatto l’abitudine.

Quando Aretha li incontra non mostra nessuno stupore. Molto business, dritta al sodo. Dà a tutti del lei, “Mr. Wexler”, “Miss Franklin”. Aretha non è solo una grande cantante, è una professionista che sa organizzarsi e prepararsi. Lo ha fatto prima di volare a Sud, con le sorelle con le quali, dopo un po’ di incomprensioni e competitività irrisolta – loro sono molto brave, ma quando hai in famiglia la migliore del mondo, è dura… – finalmente si è ricomposta quella magia che aveva già funzionato in Chiesa.

Si dice che quando entra in studio abbia già la musica nella sua testa, finita. E un brano ce l’ha. Lo ha scritto Ronnie Shannon, le edizioni sono di Ted, al quale non serve insegnare il business, ovviamente. Ma è un gran pezzo. Cosa succede in studio lo racconta un film imperdibile, “Muscle Shoals”.

In studio c’è lei al Grand Piano, gli Swampers Chips Moman e Jimmy Johnson alle chitarre, Tommy Cogbill al basso, Roger Hawkins alla batteria. Al piano elettrico Spooner Oldham. Partono. Silenzio, Sospensione. Aretha tocca i tasti. Dà il primo accordo. Spooner, risponde con gli stessi accordi sul piano elettrico. «Mournfully funky riffs» li definirà Wexler, «pieni di dolore e funky».

La definizione del soul.

Aretha e Oldham si affiancano con le due tastiere, la batteria di Roger Hawkins comincia a dare il tempo, poi arriva, sottile, l’organo. Poi, entra Aretha:

You’re a no good heart breaker
You’re a liar and you’re a cheat
And I don’t know why
I let you do these things to me…

… e sei precipitato in una crisi lui-lei, e come al solito è lei che subisce…

My friends keep telling me
That you ain’t no good
But oh, they don’t know
That I’d leave you if I could…

Aretha canta come fosse la domenica mattina, come se il dolore e il disrispetto andassero bagnati e lavati via nel fiume.

I guess I’m uptight
And I’m stuck like glue…

I fiati danno corpo a quel grido di passione, se mai servisse appoggiarsi perché non ce la fai più sono loro che ti sosterranno.

…Cause I ain’t never – si vola.
I ain’t never– si scende, poi si rivola altissimo – … I ain’t never, no, no loved a man…

C’è un mondo lì dentro. Parla di lei stessa? Deve trovare una catarsi nelle sue stesse parole? Aretha è connessa al pianoforte, canta con quella frenesia, quelle impennate di voce, strappa altissima e poi scende morbida, ammiccante, sorniona, vulnerabile e seduttiva insieme…

…the way that I looove you…

Nella biografia “Respect” di David Ritz, due dei presenti ricordano la vibrazione in studio: «Aretha ha cantato con la convinzione di una santa», dice Dan Penn (che nel pomeriggio scrive con Moman “Do Right Woman Do Right Man”, che entrerà nell’album). «Lei amava il supporto che le stavamo dando. Sapeva che al di là del colore, veniamo tutti dallo stesso posto. La donna cantava, e cantava, e cantava ancora. Noi eravamo istericamente felici, come bambini, come scolaretti, correndo in regia per ascoltare il playback. Tutti i presenti erano consapevoli che stessero guardando la nascita di una superstar. L’esperienza ha dato un nuovo significato alla parola gioia».

Quando la registrazione finisce, come diceva Wexler all’inizio, sono tutti estatici. Centro al primo colpo. Cominciano a lavorare su una seconda canzone, e si fa sera. Wexler saluta, e non sa che… in quella giornata magica e irripetibile, in cui si sente in paradiso e crede che sia cominciata una session storica, qualcosa sta per andare storto.

Avrebbe potuto intuirlo: a Hall aveva chiesto, per mitigare l’impatto con un entourage bianco, di chiamare dei fiatisti neri. Forse per quella testardaggine che era il suo tratto distintivo, Hall aveva invece chiamato tutti bianchi. E tutto era filato liscio finché a sera, dopo abbondanti libagioni per il buon risultato raggiunto, uno di loro comincia a beccarsi con Ted, apprezzamenti su Aretha, forse, o quel sottile razzismo o razzismo alla rovescia che viene fuori.

Insomma, s’alza un bel polverone, e moglie & marito se ne tornano in albergo, urlando che è tutto finito, con Muscle Shoals, la Atlantic, l’incisione. Hall capisce che la frittata è in padella, sa che il suo datore di lavoro Wexler sarà incazzato come un ebreo del Bronx, e la sera va a scusarsi con White.

Bella idea, dura un minuto e poi cominciano a menarsi pure loro. La mattina aereo e via. Wexler è distrutto. Dal Paradiso all’Inferno, senza preavviso e neanche un Virgilio a consolarlo. Tornano tutti al Nord.

Aretha sparisce, Wexler chiama chiunque nel circuito del gospel, nessuno sa niente. Aretha è scomparsa, pure dal marito. Intanto, il discografico che è in lui fa stampare una ventina di lacche e le fa arrivare al suo ben curato network di dj’s, per tastare il terreno. La risposta è entusiasta, linee telefoniche calde, dov’è il 45? Non c’è. Wexler ha in mano un potenziale #1, quello che la Franklin ha inseguito per anni, ma ha solo una facciata e mezzo e non può uscire. Che storia.

Un giorno (dieci, a esser precisi), come nelle favole, la Regina torna. Al telefono: «Mr Wexler, it’s Miss Franklin calling. Sono pronta a registrare. Non inciderò a Muscle Shoals. Lo farò a New York. So che avete studi a New York».
«Sì li abbiamo. E per la band?».
«Portate su i ragazzi di Muscle Shoals. Mi hanno capita. Per quanto riguarda i cori, sarò con le mie sorelle».
«Beautiful».

Carolyn ricorda che sono arrivate a New York sentendosi in missione. Dimostrare al mondo che Aretha era la cantante “scariest” (più “da paura”) del mondo. Quando era nel suo elemento, nessuno poteva toccarla.

Come prima cosa, si siede al piano, e finisce la linea di piano di quella “Do Right” rimasta in sospeso. Poi le sorelle fanno una parte vocale, angelica. Infine, Aretha incide, una sola e definitiva volta, la sua parte cantata, come se quella canzone le fosse appartenuta per una vita intera.

Le teste si scuotono in meraviglia, hanno assistito a qualcosa di un altro mondo, 24 anni, e la sicurezza, il gusto, l’autorità di una veterana. «Una voce giovane e vitale, ma che veniva da un luogo di antica e segreta saggezza».

Due giorni dopo, il singolo è nei negozi. È crossover immediato, #1 nella chart r’n’b, e poi su per quella pop, lassù in mezzo a Beatles e Stones, Supremes e Turtles. Ci son volute due settimane a fare quello che alla Cbs non erano riusciti a fare in sei anni. Aretha ha il suo primo disco da un milione di copie.

A ruota arriva il secondo singolo, un brano di Otis Redding già inciso da lui, una canzone che parla – da uomo – del rispetto che un uomo vuole avere in famiglia, quando torna stanco a casa la sera. O giù di lì. Aretha la riprende – da donna – e trasforma una canzone soul in un inno dalle molteplice forme.

Prima di tutto, la canzone al femminile non diventa la solita canzone di sottomissione, ansia, speranza. No, qui è una richiesta, anzi, è una pretesa. Sia di rispetto che di soddisfazione, anche sessuale. Quel «sock it to me babe» che Aretha s’inventa con le sorelle nella camera d’albergo non è proprio per nulla gospel, quello è il funk della strada, diretto, crudo e sessuale.

E poi, c’è quella genialata dello scandire le lettere come fosse un codice Morse, un pugno battuto sul tavolo, un messaggio da non discutere. R-E-S-P-E-C-T. Viene subito preso come in inno sia per i Diritti Civili che per le donne. Vogliamo rispetto. Sock it to me!

Quella canzone, che apre l’album e che Otis sentirà sorridendo dall’inizio alla fine, dicendo solo «la ragazza mi ha preso la canzone. Non è più mia. Appartiene a lei», cambia tutto per Aretha.

È nata una stella. Ma non ci sono solo i due supersingoli. Aretha si presenta in studio con le canzoni scelte e provate. Come sempre, ci sono brani di artisti che ama. “Drown in My Own Tears” è un brano classico di Ray Charles, il fratello maggiore di percorso. “Soul Serenade” gliela scrive il funky-sax del momento, il grande King Curtis, che nel futuro prossimo sarà il suo bandleader e direttore artistico.

Ci sono quelle che porta in dote lei, che dimostra di essere un’autrice già di livello. “Baby Baby Baby” è una torch song anni ‘50, “Don’t Let me Loose This Dream” è quasi un gioco a imitare Dionne Warwick: quando era alla Cbs aveva provato anche quello, pop col sapore alla Burt Bacharach, e non era andata.

Qui invece è un divertissment, come a dire “oh, so anche volare leggera”, ed è la prova generale del super hit dell’anno dopo, “I Say A Little Prayer”. “Dr Feelgood” è straordinaria, un blues pieno di sensualità. “Save Me” è un r’n’b in cui svisa, sospende, sale e scende la voce come fosse un sax (Julie Driscoll ne farà una cover diversa e fascinosa anch’essa).

Infine, ce ne sono due del suo idolo Sam Cooke, il più bello del mondo per cui a 18 anni aveva una cotta e che le indicò la via del soul finché papà non accettò di farle da manager e incidere quel demo per la Cbs: la prima è la swingante “Good Times” con arrangiamento alla Ray Charles, small big band e fiati, la seconda, che chiude l’album, è la monumentale “A Change Is Gonna Come”, il brano postumo con cui Cooke si augurava che un giorno, il cambiamento per la Black Nation sarebbe davvero arrivato.

La introduce brevemente, il piano sotto, per dire che «c’è un vecchio amico a cui ho sentito dire qualcosa che mi ha toccato il cuore, e cominciava così…I was born by the river…». È un brivido profondo che fluisce, come quel vecchio fiume, essenza di Deep Soul. Aretha lo trasforma, lo ridefinisce, lo ingigantisce, sottolinea le parole chiave, le allunga, le rimarca, stira in tutta la sua grandezza quel testo di speranza e orgoglio, un organo sotto che rende ancor più ecclesiastico questo gospel/soul, che ha il lento incedere di un canto vitale e le cui radici stanno nella storia. Maestoso. Che chiusura, una grandezza biblica. Il cambiamento arriverà. La redenzione arriverà.

Il primo Lp di Aretha per la Atlantic è un disco memorabile e fondamentale, l’inizio di quello che verrà dopo, e sarà tanto. Quasi un modello per gli album successivi, dieci in un lustro irripetibile e magnifico, fino a quel gioiello del 1972, “Amazing Grace”, il doppio disco live di puro gospel con il vecchio amico di papà, il Rev. James Cleveland, che nel frattempo era diventato una superstar del gospel col suo Southern California Community Choir. Due milioni di copie, il più venduto della storia del gospel.

“I Never Loved a Man” è un manuale di musica dell’anima, pieno di spirito di strada e di vibrazione gospel, intenso e vissuto fin dentro ogni strofa, ogni parola, ogni sospiro, ogni acuto. Non è un caso, molto sembra autobiografico.

Un cantato senza pari, perché se da quella generazione nata in Chiesa sono uscite grandi cantanti (Mavis Staples, Gladys Knight, Candi Staton, Etta James, Tina Turner, Patti Labelle, etc) Aretha è la più grande di tutte, una voce – come estensione, pulizia, dinamica, capacità interpretativa – che davvero non ha pari.

Quando all’ultimo minuto ha cantato “Nessun Dorma” in sostituzione dell’influenzato Pavarotti al Grammy del ‘98, ha mostrato che avrebbe potuto anche cantare l’opera. Ma qui sta ancora definendo quello che significa essere “The Queen Of Soul”, Regina per sempre di una musica che non morirà mai.

Carlo Massarini - Fonte | linkiesta

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