Kevin Morby - Singing Saw (2016)
Non poteva che uscire nella stagione della rinascita il terzo disco di Kevin Morby, da tempo in cerca di una vera consacrazione al di fuori degli Woods, dei quali era il bassista. La sua musa, questa volta, non è la “sega canterina” del titolo (un vero mcguffin), strumento musicale e spauracchio non solo per i vegetali nella title track del disco, ma un vecchio pianoforte verticale, trovato nella sua nuova casa ai sobborghi di Los Angeles, insieme a qualche spartito introduttivo, fondamentale per il non erudito Kevin.
Il Laurel Canyon di Morby si è scolpito, quindi, dalle note di uno strumento fino a quel momento sconosciuto, o quasi, e infatti la forza del disco è anche nell’estrema semplicità della scrittura delle canzoni (la stessa Dead Oceans racconta “Ferris Wheel” come una filastrocca, più che una canzone), che gli conferisce prima di tutto un fascino classico, forse coltivato nella sua esperienza nella band The Complete Last Waltz, sorta di tributo live alla Band.
E qualche sfizio più derivativo se lo concede, “Singing Saw”, con l’Americana da vecchio troubadour di “Water” e “Cut Me Down”, o con le note spezzate, da crooner dolce e dissoluto, di “Ferris Wheel”: è in questi passaggi che si compie la ricerca a ritroso di Morby verso il grande classico americano, che il cantautore del Texas sembra guardare da lontano, come la Los Angeles che scruta ogni giorno dalle colline. Questo non sminuisce assolutamente il lavoro del nostro, come dimostra il classicissimo ma intenso lirismo contemplativo di “Drunk On A Star”, in cui Morby decora il proprio baritono appena accennato con archi e un arrangiamento per chitarra, basso e batteria da grandi occasioni.
Non è secondario, poi, che l’America che lo circonda si presenti irrequieta e misteriosa: la vita appare insospettabilmente futile (“I Have Been To The Mountain”, con il suo Motown-folk “di protesta” alla Rodriguez, è ispirata alla morte di Eric Garner, strangolato dalla polizia perché sospettato di vendere sigarette singolarmente) e assediata da forze oscure e inspiegabili (“Cut Me Down”, l’incubo ossessivo della title track, in cui la famosa sega insegue Kevin, dopo aver tagliato un salice).
I sette minuti della title track portano alla memoria lo psych-folk noir di Timber Timbre e Junip: gli stranianti mantra chitarristici, gli algidi accordi di synth appollaiati sullo sfondo, le stilettate acustiche che sembrano imitare lo stridere della sega, le percussioni che aumentano in ritmo e intensità, come a simulare l’angoscia per una minaccia senza nome.
“Singing Saw” non è, al tempo stesso, per niente un album cupo, anzi si comprende profondamente, come nei grandi classici, la componente salvifica e catartica della musica: lo provano i Velvet Underground balearici di “Black Flowers”, o il pop smargiasso di “Dorothy”, ancora Velvet-iano.
È un estro confinato, come nella marcia dalle lievi variazioni armoniche “Destroyer”, che improvvisamente si colora di una tromba, di violino, di una voce femminile, ma che appunto non si avvale di trompe l’oeil per attirare l’ascoltatore.
E alla fine emerge così lo sguardo incontaminato di un artista rinnovato, sia dalle nuove collaborazioni (il produttore Sam Cohen su tutti, poi i musicisti di Elvis Perkins e Quilt) che da una solitudine anch’essa “nuova”, che ha reso il suo sesto senso per la realtà più acuto che mai. (Mia valutazione: Buono)
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