Charlie Parr - Stumpjumper (2015)
Certe storie possono arrivare solo dall'America, terra di grandi contraddizioni e di speranze, ove può accadere tutto e il contrario di tutto. Succede, allora, che un grande musicista, come Charlie Parr, abbia vissuto ai margini del music business per anni, producendosi i dischi da solo (o con la collaborazione di microscopiche etichette) e suonando in piccoli locali praticamente a prezzo di costo. Poi, quando le cose sembravano immodificabili e i sogni di gloria evaporati sotto l'amara benedizione degli dei della realtà, qualcosa succede. Niente di eclatante, per carità, ma Charlie Parr viene notato, apprezzato e messo sotto contratto dall'etichetta indipendente Red House, non un colosso, ma grande a sufficienza per consentire una peculiare distribuzione anche fuori dai confini locali. Un pò come era successo a Seasick Steve e Tom Ovans, per citare altri due misconosciuti artisti, a cui un barlume di notorietà arrivò solo in età avanzata. E si che il cantante e chitarrista originario di Austin, ma cresciuto a Duluth, nel Minnesota (vi ricorda qualcuno?), si era parecchio dato da fare fin dall'inizio del nuovo millennio, pubblicando tredici cd (studio e live) in una decina d'anni. Tuttavia, è solo con l'ultimo full lenght, che questo talentuoso bluesman e fuoriclasse della Resofonica, è riuscito a imporsi all'attenzione di un pubblico più vasto, il quale con molta probabilità, dopo aver ascoltato Stumpjumper, si sarà messo alla vana ricerca di tutti i precedenti, e pressochè introvabili, lavori. In viaggio attraverso le mille sfumature del southeastern blues (con un pizzico di country e blue grass), le canzoni di Charlie Parr affondano le loro radici nella grande tradizione rurale americana, traboccano di negritudine ma sono anche irrimediabilmente marcate da quella "Ruggine Americana", da quel sogno bianco e americano, il cui fallimento è magistralmente narrato nel romanzo di Philip Meyer. Tra polvere e birra ghiacciata, paesaggi scarnificati e natura incontaminata, Parr rappresenta la visione essenziale e cruda di un'America che, come dicevamo all'inizio, vive di continue contraddizioni, ma i cui soundscapes sanno produrre infinite suggestioni. Delia, la murder ballad finale, è il manifesto perfetto per un disco di blues scarno, essenziale, fremente. (Mia valutazione: Buono)
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