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Visualizzazione dei post da novembre, 2024

Morrissey - World Peace Is None of Your Business (2014)

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di Chiara Felice Il decimo lavoro in studio di Morrissey, “World Peace Is None Of Your Business”, segna il passaggio dell’artista all’etichetta Harvest e vede Joe Chiccarelli (U2, Beck, White Stripes) alla produzione. L’album arriva a poco più di nove mesi di distanza dalla pubblicazione della sua “Autobiography” uscita per la casa editrice Penguin, la quale aveva immediatamente inserito il libro nella collana “Classics” attirando qualche polemica. La figura di Morrissey ha da sempre diviso pubblico e critica: a partire dai suoi Smiths, un’intera generazione cresciuta durante gli anni ottanta – che in Inghilterra vedevano la Thatcher al comando – si è rispecchiata nell‘anticonformismo di una band che solo nel nome si allineava con la maggioranza. La poetica di Morrissey e gli arrangiamenti di Johnny Marr sono stati da subito una simbiosi perfetta e gli album che ne derivarono avrebbero contribuito a plasmare parte della cultura britannica. Non è un caso che ancora oggi si trovin

Charley Crockett - $10 Cowboy (2024)

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 di Gianfranco Callieri  Diceva il semiologo russo Vladimir Propp che "i popoli si capiscono a vicenda attraverso le favole". Anche se il quarantenne Charley Crockett da San Benito, Texas, non deve aver mai letto, a occhio e croce, una sola riga dei libri dello studioso di San Pietroburgo, senz’altro non gli manca la consapevolezza di come certe stereotipie - personaggi tipici, scenari ricorrenti, finalità educative o ammonitrici - siano non solo d’uso comune ma addirittura, talvolta, necessarie. A cosa? A mettere preventivamente a proprio agio il pubblico al quale ci si rivolge, a rassicurarlo circa gli stati d’animo, gli ambienti e le finestre percettive in procinto d’essere attraversate durante la visione di un film, la lettura d’un libro o, appunto, l’ascolto di un disco. Non sappiamo né sapremo mai, infatti, quanto della biografia di Crockett- dall’infanzia trascorsa con fratelli e madre nubile in un sudicio parcheggio per camper alle turbolenze dell’adolescenza, dagli a

John Coltrane - A Love Supreme (1966)

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di Silvano Bottaro La delirante, commovente visione di profonda religiosità che supera e confonde i limiti dell'uomo. Dagli ampi spazi del jazz, Coltrane sconvolge passioni e gusti radicati, avventurandosi in uno sperimentalismo lucido ed esaltante. Se prima coltivava passivamente la sua condizione di maledetto compiacendosi di questa immagine negativa ma affascinante, ora egli sente che il suo straordinario talento sta sprofondando negli abissi della sua sregolatezza. Così A Love Supreme diventa il tentativo estremo di esorcizzare la sua esistenza alla ricerca dell'Amore come motore del mondo individuando nell'uomo il soggetto-agente di questo sentimento a cui spetta il compito della salvezza. L'Africa ed il misticismo indiano sono le componenti di questa illuminazione e il suo sax percorre sentieri intrecciati da visioni cosmiche, da forme free mai raggiunte prima diventando la comunicazione della coscienza svincolata finalmente dal materialismo.

Anders Osborne - Picasso's Villa (2024)

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 di Fabio Cerbone  Tesoro musicale della scena di New Orleans, autore che ha saputo tenere insieme la multiforme tradizione cittadina con le nuove pulsioni del rock, del blues elettrico e dell’Americana (quando ancora la definzione del genere non era all’orizzonte), il “ragazzo svedese” di Uddevalla, catapultato nella Big Easy a metà degli anni Ottanta e lì definitivamente accolto dalla comunità artistica cittadina, festeggia quasi quattro decenni di attività discografica e alla soglia dei sessant’anni estrae dal cilindro uno dei suoi album più spiritati. Forse in consapevole constrato con l’intimità acustica e le confessioni folk dell’altrettanto ammirevole Orpheus and the Mermaids, Picasso's Villa è un condensato (“soltanto” otto brani, quattro per facciata nell’edizione in vinile che affianca l’uscita digitale) di ricordi, sensazioni, omaggi che attraversano la sua storia personale di musicista e di uomo, e allo stesso tempo commentano lo stato della nazione, un’America sballott

John Hiatt - Terms of my Surrender (2014)

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di Massimo Orsi Hiatt è ormai considerato da anni un autentico maestro nello scrivere canzoni ed uno story-teller pieno di satira e humor; con questo nuovo lavoro ci fa ascoltare racconti che passano da argomenti quali la redenzione e le relazioni, sempre più legati a protagonisti suoi coetanei, quindi più anziani ed arrendevoli. Il nuovo disco è musicalmente ancorato al blues acustico, accentuato dalla voce soul e grintosa di Hiatt, che rispecchia la gravità delle liriche riflessive. Per la produzione di questo disco, Hiatt si è rivolto al suo chitarrista storico Doug Lancio (in passato con Patty Griffin, Jack Ingram). Anche se inizialmente le registrazioni erano composte da un set elettrico, Lancio sfidò quasi subito Hiatt a suonare in acustico, cosa che sembra essere stata ben gradita, in quanto gran parte del disco è inciso in questa maniera; inoltre Hiatt dopo diverso tempo si cimenta a suonare anche l’ armonica. L’ album è stato inciso dal vivo in studio, fatto del tutto n

Gang

Accompagnati spesso - in particolare agli esordi - dalla definizione di "Clash italiani", i Gang hanno abbracciato, nel corso di una avventura musicale lunga ormai venticinque anni, un percorso personale e rigoroso, nel quale il rock si è man mano mescolato a un appassionato recupero delle radici politiche, culturali e musicali e che li ha portati ad essere non solo i capiscuola del cosiddetto combat-folk. Discografia e Wikipedia

On Every Street - Dire Straits (1991)

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Metti un chitarrista geniale che trasforma lo stile di J.J. Cale in qualcosa di così superbamente evocativo da diventare epico; metti che questo signore aggiunga un tocco deliziosamente country e un tempo sospeso che diventa cristallo; metti che a volte sembra quasi che si muova al rallentatore e altre volte acceleri con gioia fino a far combaciare il twang di Duan Eddy con i lick più aspri di Jimi Hendrix. Ci sono molti modi per definire il lavoro di Mark Knopfler, ma questo mi sembra il più semplice e, forse, il più efficace: non esiste un solo Mark Knopfler, ma puoi stare certo che ovunque accenda la sua chitarra, quello che senti lo riconosci immediatamente come un suono solo ed esclusivamente suo. Si chiamano Dire Straits, ma a tutti gli effetti sono il prolungamento e l'estensione di Mark Knopfler, che in questa lunga ballata dai toni ipnotici e dilatati prende per mano l'ascoltatore e lo conduce nella stanza dei sogni, dove ogni respiro ha la forma di una chitarra e dove

The Hard Quartet - The Hard Quartet (2024)

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 di Antonio Pancamo Puglia Con i Jicks ormai archiviati e i Pavement resuscitati a tempo indeterminato – ? – come il più glorioso dei legacy act in circolazione (com’era giusto che fosse), il caro vecchio Stephen Malkmus trova oggi un nuovo veicolo per la sua creatività, rimettendosi in gioco con un nuovo set di musicisti. E che musicisti: The Hard Quartet – la consueta ironia è evidente sin dal nome – lo vede accompagnato dai veterani Matt Sweeney (affermato chitarrista e sideman, attivo nei Chavez, nel progetto Superwolf e in una miriade di collaborazioni eccellenti), Emmett Kelly (forza primaria dietro il power pop d’autore dei Cairo Gang e sodale di Bonnie “Prince” Billy e Ty Segall) e il superbatterista Jim White (reduce dall’eccellente progetto avant-jazz Beings nonché dalla rimpatriata su disco dei suoi Dirty Three). Per quanto la star del lotto sia indubbiamente lui, l’immarcescibile silent kid, il quartetto conta su ben tre songwriter e cantanti: in fase promozionale, si è dun

Son of The Velvet Rat - Ghost Ranch (2024)

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 di Fabio Cerbone Che una delle musiche americane dai tratti più sfuggenti e desertici che si possano ascoltare di recente provenga da un duo di origini austriache è già motivo di attrazione e curiosità, che i Son of the Velvet Rat lo stiano facendo da diverso tempo e meritino finalmente qualche attenzione maggiore rispetto alle “buone maniere” di molti colleghi, anche e soprattutto da parte di quel pubblico che segue certa roots music ammantata di sensibilità d’autore, sarebbe altrettanto legittimo. Ghost Ranch, a completare idealmente una sorta di trilogia nata ai confini del deserto californiano del Mojave, presso gli studi Red Barn del produttore Gar Robertson (già al lavoro sul precedente Solitary Company) situati nella Morongo Valley, è un’ulteriore prova di come Georg Altziebler e Heike Binder, coppia artistica e nella vita, abbiano assimilato fin nelle ossa linguaggio, strutture e fascino di certo folk rock dai tratti sabbiosi e dark, come annuncia l’armonica e l’incedere lunar

Robert Wyatt - Rock Bottom (1974)

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di Silvano Bottaro Non è facile descrivere questo album, la sua bellezza è direttamente proporzionale alla sua complessità. Sono i Suoni e i sospiri di un uomo distrutto nel fisico, ma spiritualmente integro come pochi. Wyatt ritrova se stesso e l'inizio di una nuova vita proprio quando stava per perderla. Costretto su una sedia a rotelle, Wyatt realizza insieme ad amici canterburiani di vecchia data come Richard Sinclair, Hugh Hopper e uno straordinario Mike Oldfield, uno dei pochi toccanti inni di pace e d'amore mai ascoltati . Non c'è più la lucida follia dei Soft Machine , ne la psicotica anarchia dei Matching Mole , ma una musicalità dolce pervasa da un senso di commovente tranquillità e una voce roca che sembra quasi sottolineare i passaggi di questa eterea e sognante dimensione. Rock Bottom è un fascio di luce radioso che entra dalle finestre dell'anima per esaltare l'imperscrutabile grandiosità della vita. Un destino oltraggioso a causa dell'autoles

JJ Grey & Mofro - Olustee (2024)

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di Nicola Gervasini  Non sarebbe facile spiegare al pubblico italiano, anche quello più musicofilo, perché noi di Rootshighway abbiamo patito non poco per la lunga assenza discografica di JJ Grey & Mofro. Innanzitutto perché probabilmente dovremmo anche prima spiegare di chi diavolo stiamo parlando, visto che, sebbene il combo di Jacksonville, Florida sia nato prima del 2000, ad oggi la sua popolarità è parecchio limitata agli ambiti della scena post-Jam-bands, categoria a cui subito furono associati fin dal primo album Blackwater (che ancora usciva con la semplice sigla Mofro). E dovremmo spiegare come mai se su quella scena abbiamo un po’ mollato il colpo anche noi in quanto ad attenzione mediatica, perché riteniamo abbia generalmente esaurito la propria carica creativa (sebbene in USA resti un fenomeno ancora più che vivo dal punto di vista dei riscontri di pubblico presente ai concerti), loro invece non hanno mai smesso di suscitare la nostra più piena ammirazione, se non propr

The Cure – Songs of a Lost World (2024)

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di Maurizio Ermisino   “This is the end of every song that we sing” “Questa è la fine di ogni canzone che cantiamo”. Inizia così Alone, e inizia così Songs Of A Lost World, il nuovo, attesissimo album dei Cure, il primo dopo un silenzio (discografico) di 16 anni. Sembrano parole di commiato, quelle di un possibile addio, quelle di un ultimo disco. Ma non crediamo sia così. I Cure di Robert Smith sono vivi e vegeti, sono una band che ha fatto la storia del rock, ma che oggi non profuma solo di passato e di ricordi, ma dimostra di saper stare alla grande nel mondo musicale contemporaneo. Certo, alla maniera loro. I Cure tornano con un album di otto canzoni, alcune di sette minuti, e con un pezzo finale da 10 minuti, in un’era in cui Tik Tok e Spotify chiedono canzoni da 3. Mentre oggi in ogni brano il ritornello deve arrivare entro 30 secondi, la voce di Robert Smith entra dopo 3 minuti, nel pezzo finale addirittura dopo 6. Le nuove canzoni dei Cure non hanno fretta di essere ascoltate,

Rino Gaetano

Cantautore estroso e beffardo, Rino Gaetano (1950 - 1981) è stato una delle personalità più originali nel panorama musicale degli ultimi anni '70, epoca contraddittoria che in pochi hanno saputo tratteggiare nelle canzoni con medesimo spirito caustico e freschezza di linguaggio. Nato a Crotone ma trasferitosi nell'infanzia a Roma, al seguito dei genitori in cerca di lavoro. Discografia e Wikipedia

I Wanna Be Your Dog - Iggy Pop (1978)

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Vi racconto la storia di Dee Dee Lewis, che ancora oggi è magra e bella, ha gli occhi blu e i capelli biondo rame, leggermente tinti. Se la incontri per strada, può succedere che gli uomini si voltino a guardarla, come succedeva regolarmente negli anni settanta, quando era poco più che una ragazzina ma già si era conquistata, meglio non dire come, l'ambito posto di manager del Whisky a Go Go, uno dei locali storici della Città degli Angeli. Il Whisky a Go Go era, e sotto certi punti di vista è ancora, un tempio di West Hollywood, California, situato al numero 8901 di Sunset Boulevard, proprio nel cuore del Sunset Strip, fondato l'11 gennaio 1964 sulle basi di un'ex centrale di polizia. Tutti hanno suonato lì, tutti quelli che hanno fatto la storia del rock. Qualche nome? Aerosmith, Byrds, Alice Cooper, Buffalo Springfield, Doors, Jimi Hendrix, Black Sabbath, Who, Cream, Led Zeppelin, Roxy Music, Oasis, Mötley Crüe, Van Halen, Ramones.  (M. Cotto - da Rock Therapy)  

Pixies - The Night the Zombies Came (2024)

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 di Imma I Ma perché crescere, maturare, (e diciamolo) invecchiare dovrebbero far male se si riescono a mantenere integri la creatività, il talento, l’arte? Dopo l’ascolto di questo album a me sembra che almeno per i cantori di Boston proceda tutto veramente bene. Interpretare la musica alternative rock in chiave moderna, in un periodo in cui persino l’aggettivo ‘alternativo’ sembra essere desueto è oltre il coraggioso, più vicino all’eroico, all’epico, di classe. Ed è tutto ciò che scatena l’ascolto di questo nuovo album in studio dei Pixies, “The Night The Zombies Came”, che arriva a distanza di due anni dal precedente “Doggerel”. Si inizia con Primrose e si procede con le altre canzoni, fino alla sesta traccia ci si chiede: – “Ma insomma dov’è la beffa? La ripetizione? L’inganno? Datemi qualcosa che non mi piaccia, qualcosa per poter dire mmm… già sentito…” E invece no, fino alla fine delle tredici canzoni ogni attacco è uno stupore, nulla si ripete e tutto sembra perfettamente amal

John Craigie with TK & The Holy Know-Nothings - Pagan Church (2024)

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di Fabio Cerbone  La chiesa pagana della quale ci invita idealmente a varcare la soglia il buon John Craigie è di quelle che ti lusingano con ritmi e musiche che coinvolgono corpo e anima, e tu rimani fregato. Molto più concretamente, quella stessa chiesa si indentifica con la Laurelthirst Public House, locale di Portland davanti al quale Craigie è ritratto insieme alla band in copertina, sancendo una sorta di legame comunitario con un luogo che risulta una piccola oasi di salvezza per i musicisti e la scena roots cittadina. Il gruppo che affianca questo interessante songwriter di origini californiene, già messosi in evidenza da queste parti nel 2020 con Asterisk the Universe, è quello dei TK & The Holy Know-Nothings, piccola istituzione di Portland in fatto di sonorità country d’annata e contaminazioni tra honky tonk, soul e rock. L’incontro, avvenuto negli studi di questi ultimi, un vecchio complesso scolastico convertito in sala di incisione, è una sorta di reazione opposta all’

Joni Mitchell - Hejira (1976)

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di Silvano Bottaro Colonna sonora di un viaggio dal piglio autobiografico che affronta il tema simbolico della strada intesa come la vita, le vicende e il suo distacco progressivo dagli affetti fino alla solitudine finale. Scritto veramente durante un viaggio in auto da New York a Los Angeles, Hejira è un diario intimo di proustiana memoria, un flashback nei ricordi che va alla ricerca del tempo perduto. Joni Mitchell canta ciò che legge nel suo cuore, con la sua voce in primo piano a sottolineare storie di donne che sono lo specchio della sua condizione personale. La realtà universale della strada rappresenta la vulnerabilità dell'uomo, la partenza e l'arrivo e l'incognita dei percorsi. Altero ed umanissimo, Hejira è un lavoro così perfetto liricamente da far sembrare la musica non sufficiente a contenere tutte le emozioni espresse. In Joni Mitchell c'è sempre un qualcosa di più: l'arte della pittura, della letteratura, ma soprattutto il dilemma di sempr

Bill Ryder Jones - Lechyd Da (2024)

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di Nicola Gervasini  I Coral sono da più di vent’anni una di quelle band che tutti in qualche modo apprezzano, anche se poi, chissà perché, non scatenano mai gli entusiasmi che meriterebbero, nonostante il recente Sea of Mirrors, ma soprattutto il corposo Coral Island del 2021, siano tra i dischi più interessanti usciti in questi anni Venti. Qualche vecchio fan però sostiene che qualcosa si fosse irrimediabilmente rotto nel 2008, quando il chitarrista Bill Ryder-Jones abbandonò il gruppo, che lui stesso aveva fondato, dopo solo cinque album. La storia dice che la sua carriera solista non ha avuto gli stessi onori di quella della band, la quale ha continuato senza di lui come nulla fosse, anche se A Bad Wind Blows in My Heart del 2013 andrebbe recuperato, ma forse una piccola svolta potrebbe arrivare da questo Iechyd Da. Che è un disco che si distingue più che altro perché, in un era di home-record e facili scappatoie nell’elettronica per ovviare all’impossibilità di una antica ma costo

Andrew Bird - Things Are Really Great Here, Sort Of... (2014)

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di Gabriele Benzing “La storia è una sola. La più vecchia di tutte”, mormora Rust Cohle nelle scene finali di “True Detective”. “La luce contro le tenebre”. A pensarci bene, è la stessa materia di cui sono fatte le canzoni degli Handsome Family. E forse è proprio per questo che la loro musica si è intrecciata così profondamente all’immaginario della serie ideata da Nic Pizzolatto, dando voce alle tinte spettrali di una sequenza d’apertura già diventata di culto. Ma non è certo per cavalcare qualche forma di hype che Andrew Bird ha deciso di dedicare un intero disco alla rilettura di brani degli Handsome Family (compresa quella “Far From Any Road (Be My Hand)” che ha conquistato la ribalta come sigla di “True Detective”). Il suo amore per la musica dei coniugi Brett e Rennie Sparks, Bird l’ha manifestato a più riprese in tempi non sospetti: prima includendo una cover di “Don't Be Scared” nel suo esordio solista “Weather Systems”, poi interpretando “The Giant Of Illinois” nella

Giorgio Gaber

Giorgio Gaber (1939 - 2003) è figura a sé nella storia della musica e della cultura italiana. Esempio originale di intellettuale capace di trasformare radicalmente la propria immagine e il proprio linguaggio artistico, passando dal pop a un'inedita forma di teatro-canzone, al ruolo di personaggio televisivo di successo a quello di lucida, spesso sarcastica, coscienza critica della società. Discografia e Wikipedia

Heartbreak Hotel - Elvis Presley (1956)

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Ci sono molte donne nella vita di Elvis. Quelle ufficiali, a partire dalla moglie Priscilla, e quelle clandestine. Sono attrici, modelle, cantanti o, più semplicemente, persone normali. Ce n'è una che, però, è stata più importante di altre, non solo per la sua felicità, anche per la sua carriera. Si chiamava Tura Luna Pascual Yamaguchi e sapeva che con quel nome non avrebbe fatto molta strada. E allora perché non chiamarsi Tura Satana? Quel cognome d'arte non l'avrebbe dimenticato nessuno. E nessuno voleva dimenticarla, Tura Satana, dopo averla vista nel ruolo di prostituta in Irma la dolce e, soprattutto, come protagonista di Faster, Pussycat! Kill! Kill!, film di culto che avrebbe incantato intere generazioni di spettatori e futuri registi come Quentin Tarantino.  (M. Cotto - da Rock Therapy)  

E T I C H E T T E

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