Charley Crockett - $10 Cowboy (2024)

 di Gianfranco Callieri 

Diceva il semiologo russo Vladimir Propp che "i popoli si capiscono a vicenda attraverso le favole". Anche se il quarantenne Charley Crockett da San Benito, Texas, non deve aver mai letto, a occhio e croce, una sola riga dei libri dello studioso di San Pietroburgo, senz’altro non gli manca la consapevolezza di come certe stereotipie - personaggi tipici, scenari ricorrenti, finalità educative o ammonitrici - siano non solo d’uso comune ma addirittura, talvolta, necessarie. A cosa? A mettere preventivamente a proprio agio il pubblico al quale ci si rivolge, a rassicurarlo circa gli stati d’animo, gli ambienti e le finestre percettive in procinto d’essere attraversate durante la visione di un film, la lettura d’un libro o, appunto, l’ascolto di un disco.

Non sappiamo né sapremo mai, infatti, quanto della biografia di Crockett- dall’infanzia trascorsa con fratelli e madre nubile in un sudicio parcheggio per camper alle turbolenze dell’adolescenza, dagli arresti per spaccio alle operazioni al cuore, dai pellegrinaggi in autostop per mezza America alla contrattualizzazione discografica (ottenuta, pare, esibendosi per strada) - appartenga alla realtà e quanto, invece, alle mistificazioni del marketing. Reale o inventato, il profilo del musicista ha tuttavia il compito di stabilirne il raggio d’azione e di suscitare un’empatia immediata in chi, davanti a ribelli e outsiders di vario genere, proprio non sa resistere. Non solo, perché il controverso passato di Crockett svolge inoltre il compito di assicurare credibilità e affidabilità alla sua postura anti-establishment, al suo atteggiamento trasversale in cui l’assoluto rispetto verso l’antico canone di Nashville (soprattutto quello più contaminato dalle sonorità blues, soul e cajun invalse nelle regioni costiere affacciate sul Golfo del Messico) si sposa a un altrettanto radicale disconoscimento delle sue derive più commerciali e generiche.

Come prevedibile, la figura di Crockett e i suoi dischi, peraltro quasi tutti eccellenti a dispetto di una prolificità cui sarebbe forse il caso di dare una regolata (se non altro per scongiurare il rischio di ripetersi), suscitano talvolta l’impressione di far parte d’una "operazione" costruita a tavolino anche se non per questo respingente: nondimeno, se il suo lavoro migliore resta lo spumeggiante Live From The Ryman dello scorso anno, è perché la dimensione dal vivo, annullando la "quarta parete" intrinsecamente costituita da quella in studio, consente alle canzoni, alla loro messa in opera e, sì, anche agli archetipi in esse utilizzati con indubbia disinvoltura, di respirare in modo più genuino e contagioso.

Quanto Crockett sia cosciente del fatto di interpretare un ruolo (appunto quello del "cavaliere elettrico" attratto da marginalità e irregolarità) lo manifesta egli stesso non solo facendosi ritrarre, in copertina, accanto a un banco dei pegni, ma nelle strofe della title-track di questo $10 Cowboy (suo diciottesimo o diciannovesimo album!), che è un po’ la sua versione della Rhinestone Cowboy (1975) di Glen Campbell, ossia una parabola sulla necessità di tener duro anche nei periodi di magra, per arrivare un giorno alla gloria (ma dimessa, posticcia e malinconica, da bigiotteria di poco conto) d’un horseman vestito di strass. Anche Crockett si riconosce nei panni del cowboy dozzinale e artificioso, così al corrente dell’ambiguità del suo discorso da tirare in ballo persino il crepuscolo (artistico) di William C. “Billy” McClain, comico e danzatore afroamericano di fine ‘800, stella indiscussa degli (oggi) esecrati minstrel-shows in cui tutti i luoghi comuni riconducibili ai cittadini di colore venivano messi in scena, per il divertimento degli spettatori bianchi, di città in città.

Preso atto del "contesto" in cui ha trovato origine, $10 Cowboy si presenta per l’ennesima volta sanguigno, caloroso e sognante come potrebbe esserlo un inappuntabile rimescolamento tra lo swing di Bob Wills, il country di Ernest Tubb, il soul al caramello di Bill Withers (esplicitamente citato nella distensione ritmica di Gettin’ Tired Again) e le virili narrazioni del Kris Kristofferson più annerito. Dal magistrale affondo gospel di Hard Luck & Circumstances (con i cori di Angela Miller e Lauren Cervantes dei Black Pumas) all’affresco tra folk e soul di una America addirittura caratterizzata dall’influenza di Bobby Womack, dai misurati rintocchi elettrici di Diamond In The Rough al puro e incontaminato rock and roll di Solitary Road (con un intreccio di chitarre e tastiere derivante dai capisaldi del cosiddetto Philly-soul), Crockett non solo non sbaglia un colpo, ma consegna alle stampe il suo lavoro più black, pieno di sinuosi duelli tra organi e sassofoni, sintonizzato sull’umore sensuale di un pomeriggio sudista all’insegna di alte temperature e malinconie assortite (dite voi, per esempio, se la City Of Roses dedicata ai sobborghi del Texas orientale non sarebbe potuta appartenere al repertorio di Jeb Loy Nichols).

L’atmosfera piovosa e jazzy della penultima Lead The Way rievoca l’espressività struggente di Terry Callier (e non è un’iperbole), mentre la conclusiva Midnight Cowboy - ulteriore omaggio alle composizioni del conterraneo Willie Edwards i cala il sipario sull’intero $10 Cowboy tramite un feeling cinematografico alla Ennio Morricone, giusto per ribadire ancora una volta quale sia la differenza tra il mito e le sue rappresentazioni. Quella di delineare e rispecchiare mitografie classiche, nondimeno, è un’arte difficile, e Charley Crockett dimostra di padroneggiarla al punto di convincerci che la "favola" (tanto per tornare a Propp) dello scadente cowboy "da dieci dollari", ancorché sentita migliaia di volte, sia comunque sempre vera.

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