Phosphorescent - Revelator (2024)

di Fabio Cerbone 

Non mandava segnali artistici da quasi sei anni Phosphorescent, pseudonimo dietro il quale si cela da due decenni il songwriting di Matthew Houck, musicista originario di Athens, Georgia, che ha diviso la sua ispirazione fra i poli di New York e Nashville, quest’ultima la città che lo ha accolto e dove attualmente Houck risiede e incide nel suo studio personale. D’altronde non si è mai mosso frettolosamente il nostro protagonista, tanto è vero che anche dopo gli apprezzamenti generali ottenuti con Muchacho, ancora oggi il suo album più rappresentativo, aveva atteso altri cinque anni per dare alle stampe C’est la Vie, disco di compromesso fra passato e presente dal punto di vista stilitisco, un po’ irrisolto o forse soltanto troppo ambizioso nei suoni perché i singoli pezzi del puzzle musicale riuscissero a incastrarsi alla perfezione.

Non a caso la prima impressione che restituisce Revelator, titolo dall’afflato spirituale, è quella di un parziale ritorno a casa, di un recupero di certa “cosmica americana” che ammantava il citato Muchacho, così come l’opera precedente di Phosphorescent, dal bucolico Here’s To Taking It Easy fino al palese omaggio contenuto in To Willie, tributo sui generis all’icona americana Willie Nelson. Non cadiano esattamente in territori “tradizionalisti”, eppure Revelator subisce in modo implicito l’influsso di Nashville dentro una serie di canzoni che incorporano una strumentazione per così dire classica, con chitarre, piano, organo e soprattutto la liquida pedal steel di Ricky Ray Jackson, accostata ai drappi di sintetizzatori e al leggero manto di archi che spesso avvolgono e letteralmente intontiscono il sound della raccolta.

A dare manforte a questa soluzione ci sono le collaborazioni di musicisti importanti come Jack Lawrence (basso, già con Raconteurs e Dead Weathers), Jim White (batterista dei Dirty Three), William Tyler (chitarre) e Jo Schornikow (accordion, organo, piano Wurlitzer, sintetizzatore) quest’ultima compagna dello stesso Houck, che firma il brano The World is Ending. Che tutto ciò restituisca un nuovo inizio alla voce di Phosphorescent pare evidente fin dalle note della title track, la canzone che, per ammissione dello stesso Matthew Houck, ha dato il via all’intero progetto, delineandone forma e sostanza, molto intime e delicate come il canto di Phosphorescent, il quale si lascia cullare dalle onde di una sorta di etereo "indie country", se concedete la bizzarra definizione.

Fragile, umano, a tratti languido e stupefatto fino all’eccesso, Revelator è un disco che cerca conforto proprio nel suo procedere pacifico, tra i sospiri di Fences, il dilatarsi di Wide as Heaven, la grandeur sonica di To Get It Right, qualche volta nutrendosi di una patina gospel moderna, altre portando l’Americana a spasso per le praterie di una inebetita psichedelia country, da cui sbucano nenie come Impossible House e moine roots quali All the Same, per non dire di un’eccentrica A Moon Behind the Clouds che pare una Sweet Jane apocrifa concepita ai Caraibi.

Più uniforme melodicamente e al tempo stesso meno avventuroso del suo predecessore, Revelator ci riconsegna la dimensione migliore dell’autore Phosphorescent, quello di cui ci eravamo invaghiti qualche stagione addietro.

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