Jonathan Wilson - Eat the Worm (2023)

di Blackswan

Indaffarato come pochi (più o meno come l’altro Wilson, Steven) nell’attività di produttore, chitarrista e arrangiatore per una svariata serie di musicisti, Jonathan Wilson trova però sempre il tempo per stupire con le sue uscite, sia che si tratti della magnificenza di Fanfare oppure delle rilassate sonorità southern di Dixie Blur, per citare due capitoli della sua breve ma inusuale discografia.

La sua ultima uscita Eat The Worm è un disco ancora più avventuroso, un viaggio caleidoscopico e trasognato che si presenta un po' strano, un po' esoterico, e un po', verrebbe da dire, fuori controllo. Prima di tutto, l'album suona meravigliosamente, è rigoglioso, imprevedibile e multistrato. Una semplice melodia di chitarra, per fare un esempio, può essere improvvisamente interrotta da contrappunto di archi, e le canzoni, spesso, cambiano di stile, melodia e tempo quasi in un batter d'occhio.

Attenzione, però: non si tratta di un guazzabuglio caotico, quanto semmai di un seducente zibaldone, proteiforme, certo, ma tenuto insieme dalla visione e dalla mano saldissima di Wilson, il quale, pare abbastanza evidente, si è ispirato al genio assoluto di Zappa. E non solo.


L’iniziale "Marzipan" evoca il grande Harry Nilsson nello stile e nella consegna: leggiadro pianoforte, ritmo spazzolato, melodia vellutata e quegli strani punti esclamativi di strumenti e rumori che punteggiano la scrittura. Anche "Bonamossa" non dà punti di riferimento, è caos organizzato tra arpa celtica, elettronica e splendide armonie alla CSN&Y, prima che entri in scena un inaspettato arrangiamento d’archi e un tocco più bluesy nel finale.

Nilsson torna di nuovo in mente con "Ol' Father Time", un'altra semplice melodia, questa volta alla chitarra, che sboccia, però, in una straniante chiosa jazzy per archi e fiati.

"The Village Is Dead" è la canzone più esuberante dell'album poiché Wilson la sovrappone a un enorme arrangiamento orchestrale che ricorda le canzoni più vibranti di Scott Walker. Carica di fiati è anche "B.F.F.", con quella straniante melodia alla Beach Boys e il passo felpatissimo, mentre "East LA" è un fulgido esempio di cantautorato, un brano relativamente disadorno, strutturato solo per voce e pianoforte, fino a quando una triste sezione di fiati non interviene poco prima che la canzone si dissolva su un drumming molto jazzato.


Non dà punti di riferimento, Wilson, non lo fa mai. Eppure, nonostante il continuo zigzagare (gli anni ’50 e la grandeur orchestrale richiamati in "Charlie Parker", l’intimismo sussurrato di "Lo And Behold", la delicatezza romantica di "Hey Love") la visione è coesa, il percorso nitido, l’ispirazione cristallina.

Anche se evidentissimo l’approccio non ortodosso di Eat The Worm alla scrittura e agli arrangiamenti, il cuore del disco, la sua vera anima, è però clamorosamente pop. Un pop camaleontico, che accosta esperimento e musica popolare, con coraggio e, diciamolo, anche un filo di spregiudicatezza. Ascoltate, in tal senso, la conclusiva "Ridin' In A Jag" con il suo basso gorgogliante, le percussioni dei timpani e gli arrangiamenti di corno e archi. È intelligente, ben pensata e luminosa nella sua melodia uncinante. Perfetta cartina di tornasole di un disco spiazzante, solo apparentemente caotico, ed incredibilmente fascinoso.

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