Lucinda Williams – Good Souls Better Angels (2020)

di Blackswan

Sono passati quattro anni dal cupo soliloquio interiore di Ghosts Of HIghWay 20. Quattro lunghi anni in cui la Williams ha rimasticato quel profondo dolore che l’aveva portata a raccontare i fantasmi della propria vita, quattro anni di rielaborazione, interrotti solo dalla collaborazione con Charles Lloyd e dalla rilettura di Sweet Old World, estemporanea resipiscenza per attualizzare e rendere ancora più bello uno dei suoi dischi più importanti.
Si è presa tutto il tempo che le serviva, Lucilla, per metabolizzare e trasformare quella sofferenza nella rabbia che pervade ogni singola nota di Good Souls Better Angels. Rabbia nera, rabbia vera, senza filtri, senza la mediazione della distanza. Non ci sono pose né intellettualismi, ma solo la presa di coscienza della inesorabile deriva etica dell’umanità, guardata dalle prime fila dell’America di Trump, bersaglio primario delle invettive della Williams.
Se Ghosts Of Highway 20 era un disco impegnativo e scorbutico, in modo diverso lo è anche Good Souls Better Angels, che suona differente da tutto quello che conoscevamo prima, che suona violento come un ringhio in faccia, rumoroso come uno scontro a fuoco, letale come una scomoda verità. Un disco che non conosce le mezze misure, che strattona le melodie con furibonda elettricità, che aggredisce i padiglioni auricolari con volumi saturi e la sfrontatezza selvaggia di chi ricorre al rock per colpire e affondare, senza fare prigionieri.
La Williams mostra i muscoli e dispiega un armamentario micidiale di distorsioni e chitarre urticanti, che sembrano prese in prestito dal Neil Young più rumoroso. Sono pochi i momenti in cui si tira il fiato, brevi parentesi fra un assalto frontale e l’altro: la malinconia sfilacciata di Big Black Train, l’incedere meditabondo di Shadows And Doubts, la pacata introspezione di When The Way Gets Dark, il blues strascicato della conclusiva Good Souls, che apre uno spiraglio alla speranza. Questi i pochi brani immediatamente riconducibili alla storia passata della Williams, canzoni che si riconnettono alla sua discografia precedente, che suonano come gli ultimi detriti di un passato spazzato via dallo tsunami elettrico che li circonda, ultime fotografie in bianco e nero della dolorosa HighWay 20.
Lucinda digrigna i denti in un ghigno di fiera rabbia nel blues scorticato dell’iniziale You Can’t Rule Me, affronta a muso duro il Presidente con l’apostrofe risoluta di Man Without a Soul, si immerge nella pece ribollente di Pray The Devil Back To Hell, facendo deragliare l’incipit acustico in un febbrile sconquasso noise, e azzarda anche una fucilata post punk con Wakin’Up, crocevia della morte tra un ruggito blues e le spettrali atmosfere gotiche, che rimestano nel torbido evocando Killing Joke e Bauhaus.
E’ la seconda parte del disco, però, quella che annovera gli episodi più estremi, una tripletta tutta sangue e sudore che lascia attoniti: le sferraglianti trame funky di Bone Of Contention, aperto con quel lick di chitarra rubato ai Queens Of Stone Age, il martellare bombardamento di Down Past The Bottom, primitivo e selvaggio come un pezzo dei Blue Cheer e l’ipnotica combustione hard blues di Big Rotator.
Stupisce, infine, la coesione sonora del disco, prodotto da Ray Kennedy, che aveva lavorato con la Williams nel capolavoro Car Wheels on a Gravel Road del 1998, e suonato in compagnia di una straordinaria backing band, composta da Butch Norton alla batteria, da David Sutton al basso e da Stuart Mathis alla chitarra, a cui bisogna riconoscere il merito di aver dato a queste dodici canzoni la verace immediatezza di un’esecuzione live.
Dalla sua, la Williams, oltre alle canzoni, ci mette quella voce unica, dal timbro graffiante e strascicato, evocativo di una vita intensa, vissuta senza riserve, con la schiena dritta e lo sguardo limpido di chi non si è mai tirata indietro, e ha saputo guardare negli occhi il dolore e la sconfitta.
Un album diverso, che sorprenderà soprattutto quelli che hanno sempre immaginato la Williams incapace di uscire dalla sua (presunta) comfort zone. Un disco che richiede lo stesso impegno che ci viene regalato nell’affrontare temi scomodi e indicarci, in qualche modo, una via di salvezza. Lucinda è tornata, agguerrita e sfrontata, mai banale. Anche se questa volta resta lontana dalle sue radici, alla fine, come sempre, ha avuto ragione lei. Come le anime buone, che ci provano, con tutte le forze, a essere angeli migliori per rendere migliore il mondo.

Commenti

  1. Risposte
    1. Sono io che ringrazio te, e dovrei farlo anche prima del tuo, ma so che a te la "condivisione" non da problemi

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