Mary Chapin Carpenter – Personal History (2025)

 di Gianni Zuretti

Se avessi avuto una sorella minore, avrei voluto fosse Mary Chapin Carpenter! Perché la sessantasettenne singer songwriter di Princeton (NJ) è tutto ciò di desiderabile, in termini di sensibilità, eleganza e qualità artistiche, possano trovarsi in un’unica persona e poi perché da quasi quarant’anni sono legato in maniera quasi indissolubile al suo percorso umano e artistico. Ascoltare le sue canzoni, sviscerare i suoi testi, specie degli ultimi dischi, equivale a ricevere le confidenze da una amata sorella.

Con Personal History, Mary Chapin realizza il diciassettesimo album in studio, e lo fa con una consapevolezza artistica che affonda le radici in oltre trent’anni di scrittura raffinata e coerente. Dagli esordi tra folk e country di Hometown Girl (1987) al successo planetario degli anni Novanta con Come On Come On e Stones in the Road, Carpenter ha saputo trasformare il racconto personale in un gesto collettivo, mantenendo sempre una postura discreta, riflessiva, quasi laterale rispetto ai clamori del mainstream. Eppure, proprio questa sua ritrosia è diventata cifra stilistica: un’intimità che non cerca complicità facili, ma che si offre con rara onestà.

Negli anni Duemila, con dischi come Between Here and Gone (2004), The Age of Miracles (2010) e The Things That We Are Made Of (2016), Carpenter ha imboccato una strada più introspettiva, abbandonando progressivamente le sonorità country radiofoniche per un linguaggio cantautorale scarno, meditativo, quasi letterario. Questo Personal History è in un certo senso la maturazione ultima di questo percorso: un disco che parla sottovoce, che non rincorre le mode né si piega alla nostalgia, ma si limita a raccontare ciò che resta quando tutto sembra perduto o distante.

Il titolo stesso è programmatico: non si tratta di una narrazione egocentrica, ma di una sorta di archeologia dell’anima. Carpenter mette a nudo le crepe, gli smottamenti interiori, i bagliori inaspettati di speranza, sempre con l’eleganza di chi non ha bisogno di urlare per farsi ascoltare.

Uno degli elementi più sorprendenti di Personal History è l’evoluzione vocale di Carpenter. A 67 anni, la sua voce ha perso alcune luminosità degli esordi ma ha guadagnato in profondità, in sfumature emotive, in chiaroscuri. Non cerca più la perfezione timbrica, ma la verità espressiva. Le inflessioni sono più sottili, la dizione più marcata, il fraseggio più libero e narrativo. C’è un uso quasi teatrale della voce in brani come “Hello My Name Is” o “The Saving Things”, dove ogni parola sembra misurata, levigata dal tempo e dalla vita.

Questa maturazione si riflette anche nell’uso degli spazi vuoti: Carpenter sa quando lasciare respirare una frase, quando sospendere un verso, quando lasciare che il silenzio dica ciò che la voce non può. È una forma di eloquenza nuova, più umile e più potente. Non canta per essere ascoltata, ma canta nonostante tutto.

Personal History è un disco che sembra scritto a lume di candela, in una stanza silenziosa, tra pile di libri letti e dimenticati, tra fotografie girate all’ingiù. Non ci sono produzioni ridondanti né arrangiamenti pomposi: ogni strumento è al servizio della narrazione, ogni suono è scelto con cura artigianale. Le ballate, spesso costruite su pochi accordi, trovano forza nella precisione emotiva e nella densità poetica dei testi. In un’epoca dominata dalla velocità, Carpenter offre un tempo diverso: lento, meditativo, umano.

In definitiva, Personal History non è solo un album, ma una dichiarazione di poetica e di esistenza. È un’opera che rifugge ogni cinismo, che guarda al passato senza rimpianti e al presente con dolente lucidità. Un disco da ascoltare da soli, in cuffia, magari di sera. Un compagno discreto per chi cerca senso nei dettagli e verità nelle imperfezioni. Mary Chapin Carpenter, ancora una volta, ci ricorda che la bellezza può esistere anche nelle crepe: basta avere il coraggio di guardarle. Cara Mary CC, sono meritati i tuoi cinque Grammy, scrivi e canta in eterno, io sarò sempre al tuo fianco.

L’album presenta una formazione di musicisti di talento tra cui: Matt Rollings (pianoforte, organo, fisarmonica), Duke Levine (chitarra elettrica, dulcimer a martelletti), Chris Vatalaro (batteria, percussioni), Cameron Ralston (basso), Anais Mitchell (armonie vocali in “Home Is a Song“) e Josh Kaufman (produttore, chitarra, organo, armonium, armonica) ed è registrato a Bath nei Real World Studios di Peter Gabriel.

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