Beirut – A Study Of Losses (2025)
di Monica Gullini
Beirut, progetto dietro al quale si cela l’estro del musicista statunitense Zach Condon, torna con A Study Of Losses. L’album, è frutto di un intenso lavoro compositivo. Come per Hadsel, disco della rinascita, le sessioni di registrazione si dividono tra Norvegia e Germania.
Nella primavera del 2023, la direttrice della compagnia svedese Kompani Giraff, Viktoria Dalborg, si reca da Condon e gli propone di comporre le melodie per uno spettacolo adattato dal romanzo di Judith Schalansky, Verzeichnis einiger Verluste, “Un inventario delle perdite”. Zach, totalmente digiuno di tecniche circensi, recupera alcuni video degli artisti, rimanendo affascinato dai costumi, dalle luci e dalle acrobazie. Decide così di dare vita a un’odissea di diciotto tracce incentrate sulle assenze e sull’impermanenza: dalle specie estinte, dalle architetture abbandonate fino a tutto ciò che durante l’esistenza si sviluppa in divenire. Dopo aver assistito ad alcune performance della compagnia il musicista americano torna a Berlino ancora più ispirato e scrive undici tracce. Viktoria gli chiede di aggiungere altri temi strumentali per coprire l’intera durata dello show.
Alla stesura dei brani partecipa Clarice Jensen, violoncellista già presente in No no no, la quale arruola a sua volta un quartetto d’archi. Il nuovo corpus è intitolato alle fasi lunari e ispirato alla vicenda di un uomo ossessionato dal raccogliere pensieri e creazioni umane da qualche parte sulla Luna, ricerca della quale si pentirà una volta realizzato quanto tempo ha sprecato. Il risultato è sorprendente: un disco delicato, che sottolinea quanto tutto sia provvisorio ma estremamente necessario.
Una cosa va detta: Zach ha recuperato appieno la capacità vocale e la voglia di sognare. Con questa atmosfera eterea si apre Disappearances and Losses, traccia animata per intero dal synth che lascia spazio alla tribale Forest Encyclopedia, simile nei suoni a molte sonorità contenute in Hadsel. Cori, ukulele e gratitudine sono gli attori principali, in una trepidante attesa che conduce dritta dritta verso Oceanus Procellarum. Il brano è il primo dei sette temi strumentali che si rincorrono in A study of Losses e fonde archi e fiati in una melodia celestiale e solenne, come fossimo davanti a una distesa d’acqua spinta avanti e indietro dalle onde. Villa Sacchetti simboleggia quel senso di perdita e smarrimento che costella l’intera esistenza, prendendo spunto dalle rovine antiche e dalle tombe che hanno condotto il musicista fino a Roma. «I miei occhi erano asciutti come ossa quando mi dicesti che ero solo», ripete Beirut in un sussurro elevandosi sopra corde vibranti, e le sue parole suonano ancora più malinconiche se pensiamo che della villa oggi non rimane altro che un fazzoletto verde. Torniamo un attimo indietro: «Dio è il giardino al quale aspiro a credere», canta in Forest Encyclopedia: è forse questo il paradiso perduto di cui piangeva la scomparsa? Mare Crisium e gli arpeggi che si fondono con i violini sono il ponte perfetto per Garbo’s Face, pezzo dedicato alla mitica diva del cinema muto. Ecco tornare il tema degli anni che scorrono inesorabili, basti pensare alle rughe intorno agli occhi dell’attrice e ai capelli che si incanutiscono: il tempo non è soltanto sinonimo di occasioni sprecate ma è anche simbolo di attese infinite e desideri mai incarnati. «Tutto ciò che resta è tutto ciò che nascondo», cantava Condon in Elephant Gun, alla quale il musicista si è ispirato per Tuanaki Atoll: ogni nota la ricorda molto da vicino, soprattutto gli assoli di tromba e i colpi di tamburo. Di nuovo solo, il protagonista si interroga sull’esistenza e si chiede cosa debba fare, se continuare a remare o temporeggiare. Mare Umbrium non fuga i dubbi anzi, la sua melodia ariosa li amplifica: sembra di essere davanti a una superficie acquosa invece si tratta di uno degli enormi crateri che, insieme all’Oceanus Procellarum e al Mare Crisium, frastagliano la Luna. Pacatezza e leggiadria aleggiano sulle corde di Mare Serinitatis, finché Guericke’s Unicorn non spariglia le carte. Con un synth modulare e un’atmosfera che ricorda molto Realpeople Holland, album di Beirut del 2009, viene introdotto il primo degli animali fantastici che, insieme agli edifici in rovina e alle celebrità che invecchiano, rappresentano il mondo che fu.
Nel video promozionale della canzone, gli artisti della Kompani Giraff simulano la “nascita” dell’unicorno, una creatura mai esistita le cui ossa sarebbero appartenute a esseri diversi e sulla quale si è detto di tutto e di più. La dolce vocalità di Mare Humorum disarma e commuove per poi sfumare in un sussurro in Sappho’s Poem: la fisarmonica narra il declino di una passione che a tratti si riaccende negli occhi di un amante che ha cercato quello che non c’è. Una drum machine costituisce lo scheletro di Ghost Train, come a simulare un vagone che si allontana lentamente dal fiorire delle stagioni migliori diretto verso la fine della vita. Un sintetizzatore fa capolino verso la metà del brano a sottolineare quanto le cose siano evanescenti e fugaci, ma è con Caspian Tiger che si può respirare la vera essenza del disco. Un animale estinto è allegoricamente al centro della narrazione: nel video di Jan Pivonka i quattro artisti della Kompani Giraff si muovono in una stanza sospesa tra terra e luna, dove umani e oggetti sono immersi in una sorta di realismo magico. Giocolerie, acrobazie, tutto concorre a emozionare e affascinare, ricreando l’atmosfera vitale delle tigri caspiche. Zach cerca di riportare in scena il senso di cattività e di libertà dei poveri animali, immaginando anche combattimenti tra gladiatori e fiere. Il pianoforte, lento e nostalgico, si snoda insieme alla fisarmonica mentre la voce si eleva e canta l’ineluttabile. La drum machine è lo scheletro sul quale si muove Mani’s 7 books, complice una coralità che conferisce al pezzo la stessa connotazione sinfonica presente nell’Ep Lon Gisland. La dolce ninnananna di The MoonWalker ci traghetta con i suoi arpeggi in un mondo dove i sogni sono a metà tra cielo e terra, di fronte a un novello Astolfo consapevole di aver sprecato stagioni che non torneranno più. La fisarmonica dipinge un triste disincanto, Condon piange, sussurra e si frammenta in mille voci perse tra gli assoli di tromba. L’elettronica Mare Nectaris è l’espressione suprema della distanza che non si potrà mai mettere tra la vita e le cose; Mare Tranquillitatis, traccia che chiude l’album, è l’ultimo tema incentrato sui crateri lunari. Il musicista statunitense si accomiata dal pubblico da un’altra dimensione, affidandosi all’ukulele e a un fraseggio pieno di disincanto ma al tempo stesso speranzoso.
Si chiude con grazia questo inventario delle perdite, ricco di passione, stupore e tristezza. L’opera è un’allegoria del ciclo della vita, è la spinta ad andare avanti nonostante la vecchiaia, perché nulla viene risparmiato dallo scorrere inesorabile del tempo. Anche gli edifici crollano, anche le specie si estinguono, racconta Zach modulando le note con naturalezza. Siamo acrobati in bilico sul filo delle stagioni e sta a noi mantenere l’equilibrio, anche tentando manovre ardite o addirittura volando sulla Luna. Non sempre saremo soddisfatti del risultato, potremo restare stupiti da ciò che troveremo, potrà accadere che il senno della maggior parte di noi è rimasto sulla Luna mentre sulla Terra la bellezza di Greta Garbo sfiorisce e la Tigre del Caspio muore. Il segreto per avanzare sulla fune tesa senza rischiare di cadere è farcire l’esistenza con una dose di sana follia e coraggio. Solo con l’esercizio si può evitare di fallire e soltanto con la consapevolezza riusciamo a non farci male anche in assenza di reti protettive.
Non abbiamo alternative, ci suggerisce Beirut canzone dopo canzone, è il gioco della vita. Dobbiamo tentare più e più volte: l’amuleto apotropaico più efficace è il senno che sapremo dare al nostro destino.
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