Califone - The Villager's Companion (2025)

di Stefano Solventi

Ogni nuovo album dei Califone conferma che loro, più o meno, ci sono sempre stati pur essendoci in modalità riposta, o se preferite elusiva. Ci sono fin da quando iniziarono a muoversi nella fine dei 90s, rimanendo affare per pochi fino al sussulto di notorietà raggiunto col passaggio a Thrill Jockey, in coincidenza di quello strano meraviglioso album che era Quicksand / Cradlesnakes, anno 2003. Ne scrivevo all’epoca, mi rendo conto, in una sorta di trance agonistica dovuta alle prospettive che molti dischi coevi e affini (simili cioè per quanto concerneva lo spirito liminare e radiante, così come per il senso di steccati che si sbriciolavano grazie a tutto quel triturare e riassemblare forme, col cuore intimorito però anche acceso da una speranza inafferrabile negli sviluppi a medio e lungo termine, eccetera) squadernavano con una certa regolarità e convinzione. Ero irragionevolmente ottimista, d’accordo, tuttavia quei punti di vista non se ne sono mai davvero andati. Come i Califone: mai decollati al livello di popolarità che avrebbero meritato, hanno comunque proseguito. Marginali per scelta o destino che sia, tornano di nuovo a farsi vivi, a indicare angolazioni, interstizi. 

Ovviamente questo The Villager’s Companion dichiara una discendenza diretta dal precedente Villager, uscito due anni orsono. Di cui conferma l’estetica da Americana frammentata, quasi un esercizio anzi una disciplina di cut up formale che nel riassemblare euristicamente le parti coglie lo spirito profondo di quella stessa Americana altrimenti esausta, prigioniera dei propri stessi percorsi formali, saponificata nella formalina dei cliché. Che poi è la chiave di tutto il percorso di Tim Rutili, abituato a muoversi tra le righe, ad attraversare soglie, ad oscillare nella quiete nervosa di stati liminari, rilasciando calore e allarme, suggestione e sbigottimento. Anche in queste nove tracce ciò che è familiare sembra sempre sul punto di svanire nell’aria, le combinazioni più anomale lasciano trasparire i fantasmi della consuetudine: siamo sul confine, perciò lo sguardo può spingersi oltre la superficie. 

Non è un caso che il programma vada a chiudersi con due cover che segnano invece un ripiegare, cercando conforto e protezione sotto la palpebra della tradizione: la lunga Family Swan dei canadesi Mecca Normal, dal passo folk claudicante e cocciuto, e Crazy As A Loon di John Prine, col retrogusto blues che innerva le slide e spande tepore da granaio, quasi a cercare rifugio mentre tutto si fa indecifrabile come un crollo freezato. E questo in un disco che ondeggia appunto tra l’irrequietezza confortevole della tradizione (il southern-folk terrigno di Gas Station Roller Doggs) e astrazioni di varia natura, dalla bassa fedeltà psichedelica immersa in una nebbia spacey di Burn The Sheets. Bleach The Books alla digressione folk-jazz sul punto di trasecolare post-rock di A Blood Red Corduroy 3 Piece Suit, passando dalle latinerie fantasmatiche di Every Amnesia Movie e dall’art-country estatico di The Bullet B4 The Sound (da qualche parte tra i Wilco e i Sea And Cake). 

Suona, questo disco, come in parziale assenza di sé, ma è proprio questo sottrarsi alla presa, questo ipnotico scivolare all’indietro nel momento stesso in cui si manifesta, acquista senso, a trasmettere la natura intrinseca del suo messaggio: ovvero che ogni percezione coglie un interstizio tra materia e sogno, che ogni dettaglio è la tessera di un quadro sfocato, che ogni memoria è la controparte di un’amnesia, e che è sufficiente uno spostamento minimo della cornice per far slittare la sensazione di abitare uno spazio immutabile nel suo opposto.

Ci troviamo così nel punto più o meno esatto in cui l’ansia implacabile e bastarda di definire e definirsi, di collocare noi stessi (assieme a tutto il corollario) in un catalogo modello Ikea, di proiettarci in una griglia di schemi che renda pronosticabile il più minimo sussulto della ragione e del cuore, in cui tutto ciò insomma evapora nella propria stessa inconsistenza. E quel che ne resta è una morbida, fruttuosa esitazione. Sempre siano benedetti, Tim Rutili e i “suoi” Califone.     

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