Laura Marling - Patterns in Repeat (2024)
di Giuliano Delli Paoli
Nell'intervista concessaci a ridosso dell'uscita di "Songs For Our Daughter", Laura Marling ci aveva raccontato sentitamente del suo tempo in mutazione, tra il desiderio di diventare per la prima volta madre e le letture preziose dei racconti di Robertson Davies, Ottessa Moshfegh e Alison Bechdel. E anche del suo nuovo studio di registrazione domestico, epicentro fisico ed emotivo delle sue canzoni. Una rinnovata consapevolezza dei propri anni e in generale della vita, intesa anche come itinerario di un viaggio imprevedibile, che la cantautrice inglese ripone al centro di "Patterns In Repeat", ottavo album giunto dopo la più lunga pausa discografica in oltre quindici anni di carriera.
Registrato ancora una volta nello studio di casa e coprodotto da Dom Monks, con l'ulteriore assistenza agli archi di Rob Moose, "Patterns In Repeat" concentra definitivamente lo sguardo materno della musicista londinese, che due anni fa mamma lo è diventata per davvero, restituendoci così undici celebrazioni, perlopiù acustiche, di un microcosmo costellato di piccoli momenti trascorsi con la propria famiglia. Un'intimità che è luce ormai imprescindibile per le corde della compositrice britannica, la quale, grazie al precedente "Songs For Our Daughter", disco dedicato a una prole all'epoca immaginaria, ha anche incassato una nomination ai Grammy Award nella categoria Best Folk Album e un'altra come finalista del prestigioso Mercury Prize. A cominciare proprio dall'open-track, terzo singolo estratto dal disco, "Child Of Mine", canzone scritta, come spiega lei stessa, mentre "faceva saltare la figlia nella sua sdraietta quando aveva quattro settimane".
È un ricordo, quest'ultimo, che dice molto sull'anima alla base di "Patterns In Repeat". E ancora: "Non mi ero seduta per scrivere. Era da un po' che non prendevo in mano la chitarra, giusto per passare il tempo, quindi forse ha funzionato. Ho scritto la ninna nanna subito dopo e ho pensato: ok forse potrei fare un disco quest'anno. Nel corso di nove mesi mi ero felicemente preparata al fatto che la mia vita di cantautrice sarebbe stata messa in pausa mentre mi adattavo alla vita di genitore. Per la prima volta nella mia vita, ho potuto guardare negli occhi di un altro essere umano mentre scrivevo. Naturalmente, i nuovi genitori si sentono come se avessero scoperto quella sensazione, una delle più belle che la vita ha da offrire, di guardare negli occhi il proprio bambino e sentire l'enormità del quadro nel suo insieme, l'enormità di una vita precaria, celestiale, fragile e straordinaria, che prende il suo posto nella costellazione di una famiglia".
Ad anticipare invece l'annuncio dell'atteso ottavo album, è stato il singolo "Patterns", altra nenia dal passo dolcissimo, a metà tra Collie Ryan e Sibylle Baier, con la quale Laura Marling si rivolge nuovamente a sua figlia con parole d'amore incondizionato e allo stesso tempo piene di premura.
È un carillon emulato al piano a cullare invece il secondo singolo, "No One's Gonna Love You Like I Can", prima che gli archi subentrino per innalzare il canto della Marling, mentre la melodia deve nel ritornello qualcos(in)a (udite, udite) a "La donna cannone" di De Gregori, creando di conseguenza un corto circuito quasi magico, per quanto effettivamente straniante.
Un inaspettato senso di abbandono nutre al contrario i versi di "Your Girl", ennesima ballata acusticamente sospesa nel giardino dei sogni della Marling, tra coretti in penombra che anticipano il rimpianto di una fuga e l'amabile tentativo di esserci nonostante tutto.
Il passo è lento e intimamente poetico anche nella successiva "Shadows", quasi una preghiera dimessa a dirci che sono lontanissimi i tempi di "Once I Was An Eagle", che oggi resta ancora per alcuni versi il suo capolavoro insuperato, quantomeno nell'approccio a monte. La Marling è infatti ora una cantautrice in buona parte assai diversa da quella di dieci o quindici anni fa, in quanto madre fiera di esserlo, intenta ogni giorno ad abbracciare il suo nido per "farne" anche fonte d'ispirazione musicale. E' un approccio inevitabilmente bucolico che traspare a chiare note anche negli intermezzi strumentali, come "Interlude (Passages)", a richiamare i Balmorhea, mentre in "Caroline", altra perla del lotto, torna in auge il romanzo folk privato, cantato con la grazia delle muse dei 70's e l'epica di un angelo che ha ritrovato il suo scopo nel mondo terreno.
I cori appena abbozzati emergono poi ancora una volta in "Looking Back", introducendo l'ennesima ninnananna da ascoltare e riascoltare a luci basse, quando tutto è fermo, anche solo per tre minuti scarsi. Stesso vale per "Lullaby", che forse sarebbe tanto piaciuta a Elvis (!).
"Eccoci qui, dopo una giovinezza trascorsa cercando disperatamente di capire cosa significhi essere una donna, sono sul ciglio della collina, con una prospettiva completamente nuova ed enorme che mi circonda", afferma infine la cantautrice. Parole che esplicano più di mille altre il peso specifico e la dimensione di un album denso, carezzevole e pieno di vita vera come pochi altri nel panorama cantautorale attuale. Un disco che eleva con pienezza la maternità in senso stretto, un po' come accadeva ad esempio in "Homebrew" di Neneh Cherry o più di recente in "Looking Glass"di Alela Diane, ponendosi quindi coraggiosamente in contrapposizione a certe ideologie capitalistiche della società occidentale, che considerano disumanamente la lieta notizia più un intralcio alle singole carriere, che un dono divino con cui dare una dimensione autentica alla propria esistenza e alla propria musica, nel caso specifico della Marling con risultati decisamente notevoli.
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