King Hannah - Big Swimmer (2024)

 di Giovanni Davoli 

Crescono i King Hannah, disco dopo disco, tour dopo tour. Dopo aver girato Europa e USA in lungo e largo, tornano con il loro secondo LP. E tornano più densi, più maturi che mai. Già dalla title track posta all’inizio lo capisci: lei, Hannah Merrick è sempre più padrona della voce; lui, Craig Whittle, ti fa viaggiare con la chitarra per tutta l’America. Il viaggio segue per tutto il disco: dal country, al roots rock e all’alt rock tipo Built To Spill (Lily Pad), con tocchi di garage rock (New York, Let’s Do Nothing) e slowcore (Milk Boy (I Love You)). Voce e chitarra a farla da padroni, come ai tempi che furono. Un disco di rock rotondo e americano.Qualcuno meno navigato di me avrebbe potuto scrivere a questo punto che il rock ripartirà da questi ragazzi, guarda caso, di Liverpool. Così non sarà e rimarranno un ascolto di nicchia, in questi tempi in cui ben altri sono gli ascolti dei più giovani, coloro che “fanno” il mercato. Eppure, anche se ripescando dal passato – soprattutto dal folk rock dei ’70 e dall’alt rock dei ’90, con quella punta di atmosfere lynchiane (The Mattress) -, i nostri due eroi stanno iniziando a mettere su un’opera con una sua coerenza e una sua novità che, noi che ci piace ancora il rock, non possiamo che notarla. 

Hannah è una cantante sopraffina e, in questo disco, anche molto ben prodotta. È sceso in campo per l’occasione Ali Chant, già all’opera con Yard Act e Algiers, tra gli altri. Hannah, carismatica lo è stata fin dal primo single, ma ora sembra pronta per il livello superiore e forse tra vent’anni guarderemo a lei come la prossima Beth Gibbons o Hope Sandoval. Certo, le manca ancora un po’ di intensità: canta più i suoi pensieri che le sue emozioni. Ma si farà, la stoffa c’è. Craig, lo accennavamo sopra, maneggia il repertorio completo del chitarrista rock classico. Questo secondo disco è più che mai un duetto. Le canzoni spesso iniziano minimali, concentrate sulla voce, per poi esplodere in riff e assoli chitarristici che disegnano paesaggi variegati (Somewhere Near El Paso è un bellissimo esempio di questa dinamica). Di fronte a loro due, francamente, Sharon Van Etten svanisce nei suoi due featuring ai cori. 

In sintesi, King Hannah sono due ragazzi, tardi millennials, che non hanno superato il rock delle generazioni che li hanno preceduti e fanno musica retrò. Ancora usano le armonie che erano del blues e, come strumentazione, sono fermi al trittico “chitarra/basso/batteria” con cantante carismatico/a che è la base del rock. Equazione a cui si può togliere qualcosa, o aggiungere qualcos’altro, ma che da quella base non sfugge. Se il rock si potesse salvare, sarebbero loro, i King Hannah, i salvatori. Capaci di riprendere un discorso vecchio oltre mezzo secolo e aggiornarlo per la loro generazione. Con canzoni molto personali e nostalgiche di un tempo a cui non appartengono. Canzoni che raccontano la vita di due giovani musicisti profondamente uniti nell’arte e nei sentimenti. Con una sincerità e una gentilezza più che mai necessarie di questi tempi.

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