St. Vincent - All Born Screaming (2024)
Se guardiamo a Daddy’s Home alla luce di questo nuovo album e di quelli che lo hanno preceduto, viene da considerarlo un lavoro in cui St. Vincent provava, beh, a limitarsi. A circoscriversi in un perimetro. A raccontare e, quindi, raccontarsi. Per questo, e al di là del suo valore effettivo, quello sarà probabilmente ricordato come il tipico disco di transizione, forse persino interlocutorio. Un modo diplomatico per sostenere che, insomma, meglio se lasci stare. Meglio se fai ciò che sei. Un po’ mi spiace, perché Daddy’s Home resta un buon album, una partita giocata con carte più stropicciate – volutamente – per obbedire a una strategia meno sensazionalista che narrativa. Una strategia che bene o male definiva un “luogo” – del ricordo, dell’immaginario – a suo modo toccante. In questo senso, il nuovo All Born Screaming si colloca, in poche parole, agli antipodi.
Non che manchi di momenti suggestivi e anche – appunto – toccanti, ma la tattica di avvicinamento all’obiettivo è assai diversa. Opposta. Annie Clark toglie le redini e il limitatore di velocità. Ritrova la se stessa che va dove la porta l’estro e quel navigatore folle che si ritrova nelle sinapsi, sostituendo la cosplay languida anni Settanta con la vamp genialoide dallo sguardo espanso, la lucidità ingegneristica e la determinazione ventrale, comunque capace di recuperare dal lobo cerebrale destro (o, banalmente, dal cuore) la sintonia con certe frequenze più esitanti e liminari.
La scaletta – dieci tracce – si snoda all’insegna del massimalismo combinatorio, con un effetto-patchwork che sembra ingoiarsi l’espressione un attimo prima che acquisti abbastanza forza da imporre quello che diresti un concept. Come dire: il pastiche al potere. Oppure: il sensazionalismo sonico che trascende la narrazione. Ed è, tutto questo, congruo, coerente a quello che a quanto pare St. Vincent – per la prima volta in veste di produttore di se stessa – vuole essere ed esprimere. Vale a dire che nel mettere in scena storie di perdita, fragilità, ferite, smarrimento, cinismo e insensatezza, Clark utilizza un linguaggio sonoro che ha lo scopo primario di aggrapparsi all’apparato uditivo dell’ascoltatore, di articolarsi nel meccanismo complesso della superficie, di ricercare l’ipnosi della sensazione. Lavora sulla materia viva dei cliché, modula i parametri, occupa gli spazi di manovra concessi dagli schemi per sintetizzare la canzone che ti aspetti quando hai bisogno di una canzone intrigante. Appare, come dire, determinata a suonare derivativa, perché sa di poter mettere a punto un livello di derivatività inaudito, peculiare. C’è insomma nella sua musica – si sente – del parossismo, a tratti latente e più spesso scoperto, la cui intenzionalità progettuale finisce per conferire rigidità al suono, un gelo quasi mortifero, che però viene compensato dal ribollire altrettanto scoperto della sua ossessione (sì: credo che Annie Clark sia ossessionata dalla musica, grazie al cielo).
Potrei spingermi a dire che la sua calligrafia – così proteiforme e al tempo stesso calibrata – è l’immagine abbastanza fedele di questi tempi così sensazionalistici e così pianificati, di questa realtà orfana di narrazioni, desertificata dall’infodemia e in preda all’estasi dello scroll infinito. Ma sarebbe forse troppo. In ogni caso, ecco, questo disco non arriva al cuore. Non lo fa. E sembra fottersene. Sembra fottersene scientemente e a ragione. Perché sceglie vie – vibrazioni – cerebrali e sensuali. Tenta di farsi strada con la sottile perturbazione dei simulacri, attraverso canzoni potenti, intriganti e raffinate che però covano un vuoto problematico, uno scarto di senso. Non c’è un perimetro, un racconto: c’è una genesi inconsulta di forme di cui St. Vincent è la sciamana algoritmica.
Accade fin dall’iniziale Hell Is Near con la sua congettura atmosferica da tardi Novanta intrisa di densità cosmica Air e pressurizzata dream-pop (quasi) Galaxie 500, e si compie con la title track, un mambo irrigato di umori afro e chitarrina funky nervosetta, col gospel che affiora tra bordoni e perturbazioni elettrosintetiche. Nel mezzo – messi agli atti i featuring di Stella Mogzawa, di due Foo Fighters come Dave Grohl e Josh Freese, di Cate Le Bon e del NIN Justin Meldal-Johnsen – ci imbattiamo in una piuttosto beckiana Flea, in una Big Time Nothing che sciorina rumba androide marezzata funk stemperando gli U2 di Numb tra cubature Art Of Noise e ormoni Goldfrapp, in quella Broken Man (ben tre i batteristi al lavoro) che lascia fermentare il codice genetico Prince tra microprocessori e deflagrazioni Queens Of The Stone Age, e in una Violent Times suadente e scivolosa come se l’avessero appena strappata alla OST di un James Bond apocrifo.
In un paio di momenti sembra verificarsi una specie di rallentamento del sistema, l’esitazione liminare cui abbiamo accennato sopra: è il caso di Reckless – piano e afflizione vocale con l’incandescenza wave in agguato (difatti poi esplode) – e soprattutto di The Power’s Out che, il passo di Five Years riprodotto dalla drum machine, immerge distopia contemporanea in un melodramma post-glam, un po’ come dei Suede sotto formalina. Ma neppure qui viene meno il senso di pantomima, di pausa imposta da esigenze tecniche, tanto per dare respiro al carosello. Che difatti si conferma tale con Sweetest Fruit – rumba giocosa David Byrne in un bagno chimico rock anni Novanta ed estro etnico quasi Timbaland – e con quella So Many Planets che ha il merito di essere reggae senza l’ultra-banalità di troppo reggae, districandosi acrilico tra spettri fifties suadenti, spiritelli elettronici e un’amarezza obliqua che intossica il ritornello.
In conclusione: St. Vincent propone un art-pop convincente, forse in grado di piazzare qualche titolo in posizioni importanti nelle famigerate liste di Billboard (ok: Ariana Grande e Taylor Swift possono stare tranquille). Lo fa muovendosi con acume tra le linee, troppo mainstream per essere alternativa e viceversa, una dimensione messa a punto con lucidità e accanimento, girando le manopole giuste (a partire dal proprio personaggio) con l’intenzione neanche troppo segreta di far coincidere divertimento e inquietudine, radiofonia e uncanny. Ci riesce abbastanza bene, ma – che dire – forse non quanto sarebbe stato auspicabile. Tradotto: un po’ rimpiango i possibili percorsi che Daddy’s Home prospettava. Non vorrei che St. Vincent si fosse già rassegnata a essere prigioniera della propria stessa formula.
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