Vera Sola - Peacemaker (2024)
di Gianfranco Marmoro
All’inizio erano ombre (“Shades”, anno di grazia 2018), in un attimo messe a fuoco con un’intensità poetica che toglie il fiato: l’America di Vera Sola è uno spaccato inedito, il racconto gothic-noir di una Nashville selvaggia e oscura, che in pochi hanno avuto il coraggio di raccontare.
Per “Peacemaker”, la cantautrice americana Danielle Ackroyd (in arte Vera Sola) ha assoldato il co-produttore Kenneth Pattengale (Milk Carton Kids) e uno stuolo di musicisti coi quali scolpire un immaginario sonoro non più circoscritto al dialogo del passato fatto di voce, chitarra e poche sparute vestigia malinconicamente dream-pop che stavano in bilico tra la sensibilità di Marissa Nadler e la solitaria drammaturgia di Leonard Cohen.
La scelta di ampliare la struttura strumentale, con band al completo e annesse sezioni d’archi e fiati, va a tutto vantaggio dell’autenticità dei personaggi e delle storie di solitudine, amore e violenza che fanno da sfondo all’album.
Pur pubblicato nel 2024, “Peacemaker” è stato in gran parte concepito e realizzato nel 2019; l’autrice ha lasciato marinare le undici canzoni negli anni della pandemia e dell’isolamento emotivo, per poi incastonarle in un pamphlet teatrale e musicale a metà strada tra Tom Waits e i Calexico, e il risultato è sfavillante, magico.
“Peacemaker” è un disco che non nasconde mai la propria tormentata natura, il passaggio dal passato al presente è subito scandito dai primi due brani: “Bad Idea” per un attimo rievoca le immagini dell’esordio, ma lo sfarfallio degli archi alla Penguin Cafè offre i primi indizi del cambiamento, mentre il pop-rock-surf di “The Line” è il definitivo segnale della rivoluzione semantica di Vera Sola con tempi rock’n’roll sporchi, sudici.
Il titolo dell’album è una dichiarazione d’amore per i pistoleri del vecchio West (ne riparliamo in occasione dell’ultima traccia), un mondo passato che nelle mani di Danielle assume sembianze oniriche e fatalmente carnali, tra atmosfere latine che si tingono di noir (“Get Wise”) e pagine ingiallite di diari mai scritti, elegantemente addobbate dal duettare di piano e chitarra su delicate note di un antico valzer (“Is That You?”).
Canti d’amore e di sentimenti ordinari non mancano nell’immenso, eppur essenziale, scenario di “Peacemaker”: sono canzoni melodicamente disordinate e struggenti, che ancora una volta richiamano il fascino maudit di Tom Waits (“I’m Lying”), inattesi slanci alla Patsy Cline che regalano una delle pagine più ariose (“Desire Path”), nonché accenni di ibride sonorità elettroniche che non mutano l’essenza di ballate tanto spettrali quanto viscerali (“Waiting”, egualmente inebriata di armonie alla Patsy Cline).
Il secondo album di Vera Sola ha tutti i connotati di un instant classic, un disco destinato a crescere con il passare del tempo, un racconto dove le pagine più oscure sono rese lucenti dal suono lontano di percussioni e archi intrappolati in un decadentismo pittorico (“Bird House”) o dove murder ballad alla Nick Cave sono messe alla berlina da un sarcasmo degno di David Lynch o dei fratelli Cohen (“Hands”).
A rendere ancor più incendiarie le parole e le melodie è la splendida voce dell’autrice, il vibrato si fa strada tra le note più dure e grezze del disco (“Blood Bond”), con la stessa intensità dispensata nell’audace e accorta “Instrument Of War”, canzone che nell’allegorica storia di una pistola Colt, chiamata appunto “Peacemaker”, racchiude l’ambiguo dualismo di uno strumento di vita e di morte, simbolo della moderna inquietudine e protagonista inconsapevole di uno dei primi shock sonori dell’anno in corso.
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