Mol Sullivan - Goose (2024)

 di Yuri Susanna 

Non si può dire che abbia fatto le cose in modo frettoloso, Mol Sullivan. Goose raccoglie canzoni scritte in un arco temporale lungo, ben quindici anni, da quello che ci raccontano le note stampa. Per di più, l’album è rimasto nel cassetto oltre due anni: le registrazioni risalgono infatti all’ottobre del 2021. Nella canzone che dà il titolo a questo specie di esordio tardivo c’è una domanda, senza risposta, che forse ci spiega i tanti tentennamenti che ne hanno accompagnato la genesi e suona come una chiave di lettura dell’intero album. La songwriter di Cincinnati si chiede: “Am I the swan or just a goose?” (“Sono il cigno o solo un’oca?”). C’è un chiaro riferimento alla favola del brutto anatroccolo, ma la domanda si carica di particolare pregnanza se si guarda alla vicenda biografica di questa promettente autrice, arrivata a incidere finalmente in modo serio le sue canzoni (tentativi di autoproduzione lo-fi risalgono indietro fino al 2012) dopo un tormentato percorso di vita che l’ha vista lottare lungamente con l’alcolismo.

Sarebbe facile cedere alla tentazione di leggere Goose come il punto di arrivo di una terapia che ha portato la Sullivan alla sobrietà, e del resto lei stessa non nasconde i demoni con cui si è trovata a lottare per dieci lunghi anni: sono tutti qui, sia quelli della dipendenza sia quelli delle difficoltà nell’intrecciare e coltivare umane relazioni, in queste 11 canzoni, esorcizzati e dipinti con lucidità per chi ha voglia di ascoltare. Non è però solo un disco con un forte messaggio, Goose. E’ anche il risultato di un lavoro volto a plasmare con cura la forma delle canzoni da parte di un’autrice e interprete sensibile ed esposta a influenze eterogenee, cresciuta con un’idea di songwriting che è figlia della stagione del pop autoriale dei Novanta: Tori Amos come nume tutelare, Lisa Loeb come modello di scrittura intimista, un pizzico di Fiona Apple quando il ritmo prende strade meno prevedibili.

Alla base c’è una scrittura scarna, essenziale, a cui il lavoro in studio aggiunge un’infinta varietà di colori e strumenti: dal mellotron alla pedal steel, dal clarinetto agli archi, ogni pennellata rende più vivido il singolo particolare ma non distoglie l’attenzione dal cuore, scoperto e palpitante, del brano. Parte del merito immaginiamo che vada riconosciuto alla produzione di Sima Cunningham, musicista di Chicago del giro Wilco, che nel disco suona anche di tutto un po’. Così abbiamo il potenziale singolo, Still Tryin’, che sembra giocare con una sensualità à la Sheryl Crow, accanto ai barocchismi vertiginosi di Like This Now. Ma anche la linearità folk/pop di Eggshell e di Lamb, che dividono lo spazio con la narcolessi in odore di jazz gitano di Ask e il “progressive” (echi di Robert Wyatt) di Marrying Type. Chiamatelo, se volete, chamber pop. O indie-folk, se preferite. L’importante è non dovere aspettare altri tre lustri per ascoltarne il seguito.

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