Addio a Cesare Monti, autore delle più famose copertine di Lucio Battisti, PFM e De André
Riccardo Bertoncelli e Franz Di Cioccio tempo fa fecero una lunga intervista a Cesare Monti, che raccontò molte chicche sul suo metodo di lavoro rivelando numerosi aneddoti sui molti personaggi che incontrò, a cominciare da Lucio Battisti
di Riccardo Bertoncelli
È morto Cesare Monti, un tumore se l’è portato via un po’ per volta. È stato un grande fotografo, un gigante non solo per la mole in quel mondo piccolo piccolo che era, che è, la musica pop rock in Italia. L’ho frequentato poco ma quando ebbi bisogno di lui, anni fa, per una intervista sul suo lavoro con Lucio Battisti, lo trovai disponibile, appassionato, ferocemente schietto, com’era nella vita e nel lavoro. L’intervista che condussi con Franz Di Cioccio venne benissimo ed è uno dei momenti più alti di un libro che purtroppo ha volato basso, troppo basso, Sulle corde di Lucio – scritto a quattro mani (anzi due, avrebbe riso Kaiser – “perché, tu scrivi con due mani?”) appunto con Franz.
Il libro è fuori catalogo, in Rete non credo che queste preziose memorie si trovino. Le voglio regalare a chi legge questo sito e naturalmente a Cesare, Gentle Giant di una perduta stagione di musica e di vita. Grazie ancora e, come amava dire Gianni Brera, ti sia lieve la terra (R.B.)
Intervista a Cesare Monti
di Riccardo Bertoncelli e Franz DiCioccio
Cominciamo dall’inizio. Tu Lucio quando lo conosci?
Dunque, io Lucio l’ho incontrato la primissima volta perché una vigilia di Natale mio fratello ha portato a casa questo ragazzotto abbastanza simpatico – anche se, è risaputo, gli amici dei fratelli sono sempre una rottura. Insomma, non bastava Pietruccio a rompere, c’era anche sto tizio che però era divertente, e molto gioviale con i miei. Avevamo una casa piccolissima, dove si viveva in quattro, vi lascio immaginare come poteva essere. Io vivevo in sala.
’Sto Lucio Battisti girava sempre per casa, non ricordo dove abitasse… forse già stava vicino a via dei Tulipani, dalle parti del Giambellino, e veniva da noi a fare gli esercizi con mio fratello. Esercizi di chitarra; sai quelle cose “din tu tu din bom bem”, che palle!, a me della musica non fregava proprio niente. Io dovevo studiare, ero il classico studente lavoratore, facevo una vita abbastanza dura.
Dove abitavate?
Via Stendhal, in fondo a via Washington. Era una zona ad alta concentrazione artistica, diciamo così. Fate conto che i miei amici d’infanzia sono stati Moni Ovadia, che non c’è bisogno di spiegare chi è, e Aldo Reggiani, che ebbe un breve successo quando fece in TV La freccia nera. E lì poco distante abitava Maurizio Arceri dei New Dada e poi dei Krisma, e Ricky Gianco stava in fondo a via Tortona credo – sempre in zona.
Di che anni stiamo parlando?
Be’, quando arriva Lucio sarà stato il ’65, credo di non sbagliare. Stava ancora con i Campioni, suonavano al Tricheco e ogni tanto, siccome Pepe dei Dik Dik lavorava in banca, ogni tanto lo sostituiva e suonava la chitarra lui. Forse ancora non si chiamavano Dik Dik, forse si chiamavano gli Squali, perché accompagnavano una che si chiamava Miriam Del Mare… Miriam Del Mare e gli Squali, pensa te. Avevano cambiato il nome originale, che era Dreamers.
Ma davvero la musica a te non importava niente?
Devo fare una premessa, se no non si capisce. Bisogna considerare il fatto che io ho vissuto un’esperienza durissima nella mia vita… quella dello studente lavoratore, in anni in cui, vi faccio solo un esempio, avevo un compagno di banco che si suicidò perché non ce l’avrebbe fatta a diplomarsi – quella era emarginazione, mica un modo di dire. Le prime rivolte del ‘68 nascono dagli studenti lavoratori, perché le fabbriche non ti davano la possibilità di fare i turni, non riconoscevano il tuo diritto, e se studiavi ti buttavano fuori, a loro non serviva gente acculturata, anzi… perché poteva succedere che tu in catena di montaggio ti trovavi uno che si stava laureando in ingegneria di fianco a uno che faceva l’operaio, e tu capisci cosa vuol dire… Vuol dire che questo qui diceva: “Oh, guarda che questi qui ti stanno sfruttando.” In un contesto del genere capisci che la menata della musica, sì, mi toccava, ma fino ad un certo punto. Sì, poteva essere divertente, poteva essere interessante però c’erano cose ben più importanti.
Detto questo, be’, quell’aria un po’ l’ho respirata anch’io. Mi è capitato certe volte di andare con i Dik Dik a Corbetta, c’era questo locale dove suonavano e certe volte gestivano loro gli spettacoli, e io facevo il controllo biglietti, mi davano 1000/2000 lire di mancia perché stavo lì… e a Corbetta c’era appunto Battisti, che ogni tanto sostituiva Pepe. Poi sono andato anche più di una volta in via dei Cinquecento a sentire quando registravano, sia i Dik Dik sia Lucio. Ricordo che avevano un 4 piste, la tecnologia era quella, e un tecnico del suono, Patergnani, che faceva delle cose assolutamente incredibili in un posto che poi era il cinema di un oratorio… No, per carità, c’erano delle cose belle e Battisti quando parlava di musica era affascinante, assolutamente affascinante. Era quando parlava d’altro che io proprio non ci stavo e mi dava fastidio.
Per esempio?
Per esempio quando ha cominciato ad avere un po’ di successo, e allora si è messo ad alzare la cresta e mi insegnava come dovevo vivere… quella era una cosa che proprio mi faceva girare le palle! Ricordo una volta, ero in Piazza Fontana e lui è arrivato con il suo Duetto rosso, la prima macchina un po’ vistosa che ha avuto, decapottabile… e voleva darmi un passaggio! Io già allora ero uno… facevo parte del gruppo ’63, quindi ancora prima del ’68, ero uno tosto, uno già incazzato nero. E ’sta storia che lui che mi voleva spiegare che nella vita la cosa importante sono i soldi, e bla bla bla, io non l’ho mai digerita, l’ho mandato a fanculo più di una volta perché non riuscivo a capire questo suo modo di vedere le cose. Poi ho capito che lo faceva un po’ come un fratello maggiore – era preoccupazione, era un atteggiamento d’affetto. Io però lo vivevo in un modo differente.
C’era anche un certo contrasto generazionale, no?, appunto tra minori e maggiori…
Sì, il punto era proprio quello. Cinque anni di differenza oggi non sembrano niente, allora invece erano tantissimi. Era un’altra generazione, e io trovo che quella di mio fratello Pietruccio e di Lucio sia stata una generazione un po’ sfigata: perché è stata quella del dopoguerra, e ha vissuto quel tempo senza sentire la forza del ’68. Quindi avevano un altro atteggiamento nei confronti della vita e delle cose, sicuramente più equilibrato, meno aggressivo – oggi potrei dire anche più sensato. Allora però era diverso, e quando vidi per la prima volta Mogol lo considerai un deficiente, perché arrivò anche lui con un macchinone ed entrò in casa quasi senza salutare. Sono situazioni che probabilmente in un altro contesto avresti accettato tranquillamente ma allora ti facevano bollire il sangue. “Ma chi cazzo sono ’sti stronzi!”
Ti dilettavi da fotografo già in quegli anni?
No, la fotografia l’ho scoperta alla fine degli anni ’60, quando sono andato in Inghilterra e ho incontrato dei fotografi che mi hanno affascinato. Uno era Romano Cagnoni, che è stato l’assistente di Bresson, uno dell’agenzia Magnum, uno dei grandi. Un altro si chiamava Ragazzini, lui invece faceva le copertine dei dischi e io non capivo bene che lavoro fosse, perché a quei tempi in Italia, parliamo del ’69 -’70, le copertine dei dischi erano semplicemente la fotografia di un servizio scelta dalla casa discografica con sotto una scritta. Lì invece era tutta un’altra cosa. Ragazzini lavorava per la Apple e ho cominciato a vedere un modo differente di accostarsi al rapporto tra musica e immagine. Io trovo che quel periodo sia stato assolutamente straordinario, un periodo in cui si è cercato di fare un discorso che in qualche modo si potrebbe definire politico…le copertine non erano solo l’immagine dell’artista ma diventavano parte di un discorso più ampio, di un progetto visivo/culturale… spiegavano la filosofia di quel che c’era dentro. Io penso di esser stato il primo qui da noi a portare avanti questo tipo di discorso, probabilmente perché faceva parte del mio DNA, perché venivo da quel tipo di dimensione. Penso di essere stato un vero uomo del ’68, fino in fondo; credevo profondamente all’utopia del potere, ci ho sempre creduto e la cosa drammatica è che ci credo ancora.
Quindi, tu torni in Italia e ti butti nel mondo delle foto musicali…
Be’, capii in fretta che la moda non era la mia storia, avevo avuto delle proposte e avevo scattato anche dei ritratti per Vogue, però non c’entravo un cazzo, erano due mondi totalmente differenti. Avevo vissuto anche un’esperienza di reportage in Irlanda ma era un mondo troppo duro, bisognava avere due maroni infiniti e caratteristiche personali diverse dalle mie. Insomma, a un certo punto ho scoperto che c’era la possibilità di fare qualcosa all’interno della musica. Il primo personaggio che ho incontrato è stato Demetrio Stratos, che non stava più con i Ribelli e voleva fare un disco da solo, ma non se ne cavò nulla. Esordii invece con l’Equipe 84, l’album si chiamava Casa mia e la copertina era divisa in quattro: quattro diversi ambienti per quattro persone diverse, quelle che suonavano nel disco. Uno naturalmente era MaurizioVandelli, che tutti chiamavano “il principe” – “il principe cerca casa”, ah ah ah! Poi della vecchia Equipe c’era Victor Sogliani e i nuovi erano Baldan Bembo e Franz Di Cioccio, lui vestito da hippy con in braccio sua figlia nata da poco.
Un bel lavoro, una vera copertina come dicevo prima: che mi fruttò la cifra complessiva di 25.000 lire! Non riuscivano a pensare diversamente, i discografici, loro per una copertina spendevano 25.000 lire e tanto mi diedero, perché non avevano ancora capito il significato e la forza dell’immagine. E io pur di continuare dissi va bene, piglio i soldi che mi date, va bene, anche se è una miseria. Anche perché, guadagnando poco, avevo un’arma fantastica. Io guadagno un cazzo però vi posso mandare a quel paese. Non ho nulla da perdere, vivo con il poco che ricevo.
Be’, sarà successo solo quella prima volta…
No, no, è successo ancora, e per un bel pezzo! Le cose sono cambiate quando sono entrato con la Numero Uno, perché solo allora ho cominciato a gestire l’immagine, cosa che a quei tempi era inconcepibile. Le case discografiche avevano tutte un grafico all’interno, era un assunto. E i servizi che si usavano per i cantanti, anche di successo, erano cosacce demenziali con la tunica da romano, per esempio, in parti improponibili. Poi quel mondo è cambiato e sono contento di avere spianato la strada, anche se le prime volte mi hanno pagato 25.000 lire. Le foto che ho fatto io non sono mai uscite su nessun giornale. Primo perchè erano state concepite per un altro uso, appunto le copertine, e poi perchè nessun giornale le avrebbe mai pubblicate. Sissignore, le foto che le riviste adesso si strappano di mano, per il 90% sono state rifiutate dai giornali di allora, per il fatto che erano troppo difficili, troppo mentali – proprio quello che volevo.
Sotto un certo profilo era una scelta suicida, e giustamente mio fratello mi faceva un culo così. Però io ero determinato. per me quella era la mia storia – non volevo fare altro. Così ho cominciato, e devo dire grazie a Franco Daldello perché è lui che mi ha chiamato per primo alla Numero Uno. Io ho fatto le prime foto per Flora Fauna & Cemento, mentre stavano facendo un spot pubblicitario della Coca Cola.. Poi è venuto Battisti, con il piacere di lavorare con lui e il peso di avere Giulio. Perché Battisti era disponibile, era curioso, e non era un uomo da luogo comune mentre Giulio tutto il contrario. Giulio è un uomo da luogo comune, ma dai, la storia del Mulino è addirittura ridicola; fare una comune dieci anni dopo fa morir da ridere, arrivi con un ritardo abissale. Ma lui era fatto così, Mogol ha sempre fatto grandi cose con idee che arrivavano con dieci anni di ritardo.
Quindi il creativo curioso che ti stimolava era Lucio…
Sì, e non solo era curioso. Il punto vero è non amava ripetersi, e questa è la cosa fondamentale da capire nei rapporti fra noi tre. Io e lui eravamo gli sperimentatori, Mogol era un ribaditore: che qualche volta diventava una specie di Zelig, ti rubava il ruolo, si voleva sostituire per esempio a me, che volevo semplicemente fare quello che sapevo fare, l’art director.
Ma voglio aggiungere un altro elemento, interessante, che mi è sempre piaciuto: Lucio era attirato dal concetto di squadra, di gruppo. Anche per questo non amava mettere la sua immagine sulla copertina dei dischi. L’ha fatto quella volta con la foto del fiore in bocca, e l’ho trovata assolutamente ridicola. Lì non c’è Lucio Battisti – è la copertina con le mani alzate quella in cui lo riconosco davvero, il progetto più giusto con lui.
Vedete, prima ho usate parole molto critiche ma io ho avuto un rapporto molto forte con Lucio, a quei tempi. E l’ho avuto soprattutto perché c’era molta più identità tra noi due di quel che potesse sembrare. Per esempio eravamo tutti e due tosti, ricercatori, attenti a non ripetere mai la stessa cosa. E lui non vedeva la musica come un piccolo ambito tecnico, la vedeva come un progetto totale, ed è la ragione per cui, quando gli andavi a chiedere l’autografo, a lui giravano i coglioni. Non perchè fosse scorbutico, o almeno non solo, perché un certo caratterino ce lo aveva… Però il fatto è che dentro di sé diceva: ma perché ami la mia figura invece di amare quello che io do? E lo stesso vale per chi gli chiedeva certe canzoni vecchie quando lui era passato ad altro. Si incazzava come una bestia, voleva dire che non avevano capito il suo lavoro.
Guarda, io in vita mia ne ho incontrati tanti di artisti, anche quando ero in America, ho incontrato Frank Zappa, per dirtene solo uno. Però ti posso garantire… la persona che più di tutti mi ha meravigliato è stato Lucio Battisti. Perché aveva dentro questa sua voglia di tirar fuori le cose, ogni volta sempre diverse. Non era mai scontato, che è precisamente l’opposto di Giulio. Quindi trovo inevitabile che a un certo punto si siano divisi – anche se poi non conosco le ragioni effettive, parlo solo di caratteri, di personalità in generale. Ti assicuro, non ho mai incontrato un ricercatore accanito come Lucio. E probabilmente avrebbe potuto fare di più ma non è stato aiutato, in questo senso forse un uomo un po’ più colto l’avrebbe potuto spingere a perlustrare strade più profonde, più interessanti.
Dai, almeno per la par condicio di’ una cosa positiva su Mogol…
Non è difficile. Aveva un naso pazzesco! Non faccio fatica a riconoscergli una straordinaria sensibilità. Mi ricordo una volta che sono andato in studio con lui e mia moglie, Wanda, che era sua amica. Tra parentesi Giulio aveva un rapporto molto più forte, di amicizia, con le donne che con gli uomini, mi viene da dire che dentro lui è molto femminile. Aveva tantissime amiche donne e una grandissima capacità di intesa e complicità con loro. Ecco, eravamo noi tre in studio ma non più in via dei Cinquecento, erano gli studi della Fonorama in via Barletta, mi sembra, e Lucio stava registrando Il mio canto libero. Arriviamo, e Battisti gli fa ascoltare il pezzo che aveva appena finito. Giulio ascolta, scuote la testa e si mette a ricantargli la canzone nell’orecchio, in un modo che non ti posso dire perché è stonato e ha una voce terrificante – “ghairahiahiai”. Non so come cazzo… Be’, Lucio richiama i musicisti e al volo rifà il pezzo nella versione che adesso conosciamo, quella che è uscita. Incredibile.
Guardate, io non ce l’ho con Giulio per partito preso. Faccio solo un bilancio che credo lucido, equilibrato, e dico che Battisti ha avuto la grande fortuna di incontrare Mogol ma anche la grande sfortuna di incontrare Mogol. Nel senso che Giulio lo ha fatto diventare quel che è diventato, nessun dubbio, ma forse lo ha fatto emarginare dal punto di vista qualitativo, tant’è vero che spesso i critici di allora gli sono saltati addosso. La cosa più straordinaria che ho imparato da Battisti, il suo vero insegnamento posso riassumerlo in: osa, osa e osa ancora. Questo era Lucio e questa secondo me è la cosa più potente di quell’uomo. Forse non è stata capita, forse non ha fatto a tempo a definirla… non lo so. Però di lui posso dire questo, e non è una cosa comune.
Era un tipo allegro?
Era un simpaticone, estroverso, almeno da ragazzo, ma era anche un uomo pieno di dolori. Sembra strano dirlo dopo una storia come la sua, ma non era un uomo nato per vincere. Era un perdente. Credo sia cresciuto con quella idea lì, perchè fisicamente era cicciotto e le frustrazioni giovanili, non ci sono cazzi, ti rimangono tutta la vita. Posso dirvi la mia esperienza, il fatto di frequentare la scuola serale è una cosa durissima. Non è una scelta che dici “bello, divertente”, e ti fai quattro risate. Proprio no. Così mi figuro lui, cresciuto in un paese, da solo, con tutto un mondo dentro… Provate a immaginarvi questo ragazzo con questa ricchezza che nessuno conosce e mette alla prova, con questa sete che non viene mai dissetata. Mai, anche se a un certo punto ti viene da dirgli: ma cazzo, hai avuto successo, cosa vuoi di più? No, mai, non si placa mai.
Giulio proveniva da una famiglia ricca, borghese, appena ha iniziato ha avuto successo, la fortuna l’ha trovata al volo – quindi due mondi completamente diversi. Lucio all’inizio ha fatto fatica, ha sentito la durezza e la fatica della vita, il suo dolore… per non dire certi dolori molto profondi con le donne, specie una di cui ora mi sfugge il nome…faceva la segretaria alla Ricordi. Arrivò quasi quasi al suicidio, fu mio fratello a tirarlo fuori.
Torniamo a quando arrivi alla Numero Uno. Libri alla mano, l’anno è il 1971…
Sì, e una delle prime cose che faccio, prima di qualsiasi cosa con Battisti, è il 45 giri della PFM, quello con le pannocchie. Anzi, ora che ci penso ho fatto una cosa più complessa: ho fatto i manifesti della PFM! Manifesti come non erano mai stati fatti prima, non quelli soliti con la foto dell’artista in primo piano e sotto il nome. In quel manifesto c’era un particolare del musicista, uno per tutti i membri della PFM, il particolare che lo distingueva. Di Mussida si vedevano bocca e chitarra, di Franz la bocca e il braccio alzato, mentre stavo chiudendo un break; e così per tutti, di Pagani si vedevano il labbro e il flauto! Erano foto fortemente contrastate, bianco e nero – e spiegavano più che illustrare, erano una specie di piccola galleria d’arte. Si capiva già dal manifesto che c’era musica, e che musica era.
Con Battisti quand’è che hai cominciato a lavorare?
Con Battisti è stato per il singolo della Canzone del sole – lui con il fiore in bocca, la copertina che, lo spiegavo prima, è quella che mi piace meno. Non è mia quella copertina, cioè la foto sì ma non il concetto generale. Non so, sul retro del secondo album dei Doors c’erano dei nani, dei personaggi stravaganti, e l’idea era quella di rendere la cosa appunto un po’ in quel modo, Felliniana. In quel caso fu Giulio a decidere, io non avevo ancora alcun tipo di potere e decise che lui si presentava con la borsa, che è la borsa delle macchine fotografiche, che è una borsa da dottore, e un fiore in bocca. Io non volevo fare quello scatto ma lui “No, no, mettilo, mettilo!” Io avevo fatto altri scatti e loro han scelto quello… che piacerà anche ma io non l’ho mai sopportato.
È una citazione della Canzone del sole, no? – ‘un fiore in bocca può servire sai…’-
Ma è proprio per questo! Ecco un’altra cosa che non ho mai sopportato: la retorica del ripetere. Una canzone parla di un fiore in bocca e tu fotografi l’artista con un fiore in bocca… E’ terribile. E’ cacofonico, mi spiego?
La copertina di Io, tu, noi tutti, quella con le braccia alzate, è invece tua, giusto?
Sì, e tra le braccia alzate c’erano anche quelle di Lucio. E i piedi anche: lui e tutto il giro della Numero Uno, più mio fratello e donne e fidanzate varie – c’era anche Maria Grazia. Ma il divertente sai cos’è stato? Che a un certo punto ho capito che se facevo alzare le braccia venivano anche le teste, e allora li ho fatti sdraiare per terra, e in quella posizione tiravano su le braccia. Poi ho scattato le gambe, era più semplice, e lì ricordo che alle donne non importava niente tirarsi via le gonne, mentre gli uomini senza pantaloni si imbarazzavano…
Senti, la copertina più famosa è però quella di lui che corre nel fango… Era tutto vero? Ha finito col fiatone?
Col fiatone? Cazzo! Era un posto di fianco al Mulino, dove si registrava, e aveva piovuto da poco ma le pozzanghere non erano profonde abbastanza. L’acqua non si alzava e allora abbiamo collegato una canna alla rete idrica, bagnando il fango. Niente, non si alzava ancora. Allora pigliamo dei sassi e li lanciamo quando lui arriva. E ad un certo punto Lucio inciampa e fa un volo pazzesco, e arriva a tanto così da un masso gigante… Lui non faceva una piega: “Ma io ci ho er fisico… ahò, ci ho er fisico!” Che ridere! Be’, finiamo di fare le foto e il giorno dopo gli telefono, per avvisarlo che era venuto tutto bene. Mi risponde Maria Grazia. “E Lucio dov’è?” “Lucio è a letto, con la febbre a 40!” Era distrutto! Ma era tipico suo: per sfida era pronto a fare qualsiasi cosa, a costo anche di rovinarsi.
Senti, tu a un certo punto te ne vai dalla Numero Uno e poi ritorni, proprio con la copertina de Il contrabbasso, la batteria, questa di cui abbiamo appena parlato. Perchè te n’eri andato?
La ragione è molto semplice ed è che mi trovavo in una situazione difficile. Da un parte lavoravo con un progetto che rappresentava la retorica italiana, cioè Battisti/Mogol, dall’altra ero con la Cramps, con tutto un modo diverso e veramente alternativo di vedere le cose – quindi capite che mi spezzavo in due. Io non ero un professionista distaccato, ero un autore e come tale vivevo intensamente le cose che facevo… era la mia vita, senza finzioni. Poi c’erano cose più prosaiche. C’era Giulio che si metteva in mezzo, e quando ritornai il patto fu che me lo togliessero dai coglioni. Mi ero allontanato anche perchè era nata una discussione sulla storia della… perché Giulio voleva che andassi a vivere alla Comune del Mulino. La Comune dei ricchi… ma rendetevi conto! Anche Lucio non ne voleva sapere.
Be’, di Battisti si è sempre detto che era di destra, anzi, che finanziava addirittura i gruppi della destra estrema…
Guarda, quella di Battisti di destra è una leggenda – a lui non fregava niente. E il solo pensiero che abbia tirato fuori dei soldi per qualcuno, figuriamoci una formazione politica, ti assicuro che è pura fantascienza! Dai, era uno che quando già aveva centinaia di milioni veniva a casa mia in piena estate e mi faceva vedere tutto contento gli stivali con l’interno di pelo… “Li ho presi adesso al mercato per 10.000 lire,” mi diceva. Uno che per risparmiare è venuto a farsi fare da me le foto tessera! L’uomo di destra sicuramente era colui che faceva i testi, cioè Giulio, non certo Battisti.
È vero che a un certo punto ci furono contatti con Re Nudo per dare a Battisti una patina movimentista?
È vero che io lavoravo con “Re Nudo”, intorno alla metà degli anni ’70, e collaboravo anche con l’Ultima spiaggia, la nuova etichetta di Nanni Ricordi. E siccome l’ Ultima Spiaggia era distribuita dall’RCA, come d’altra parte la Numero Uno, ed era diventata una specie di ufficio di riferimento milanese per le distribuite dalla RCA, a un certo punto si ragionò se non fosse possibile stabilire contatti più stretti – che era un discorso che poteva interessarci anche per “Re Nudo”. Allora venne fatto questo incontro, a cui parteciparono Giulio e Lucio, che presentarono il disco nuovo ad Andrea Valcarenghi, a Gianfranco Manfredi e a me, ma io già lo conoscevo. Il disco era Il contrabbasso, la batteria, quello lì insomma….
E Giulio fece una mossa sbagliatissima, cioè ci fece trovare un giornalista, che era Renato Marengo di “Ciao 2001”. Comunque, ascoltiamo la musica, il disco piace, c’è una situazione molto rilassata e ci si chiarisce. Alla fine organizziamo addirittura una partita di calcio, tutti insieme, una cosa proprio divertente. Sembra che possa essere l’inizio di una collaborazione e che si possa fare in modo di aiutare Lucio, diciamo così, a essere digerito dalla sinistra. Se non che esce un articolo assolutamente demenziale su Ciao 2001 dove tutto viene distorto e per di più attaccano mia moglie e la moglie di Gianfranco Manfredi… bollandole come femministe, dicendo delle cose terribili, che volevano intervenire sui testi. Insomma, un pezzo scandalistico. Noi abbiamo reagito, chiaramente, e abbiamo messo quell’articolo nella rubrica che avevamo ogni mese, “Fatti avanti cretino”, non so se ti ricordi … c’era questa rubrica di sciocchezze giornalistiche e come logo c’era Einstein che mostrava la lingua.
Insomma, il clima si guasta e a quel punto salta tutto.
Battisti da che parte stava in quei casini?
Non so, guarda, io ho l’impressione che quando sono tornato è stato anche perché Giulio e Lucio avevano già rotto i rapporti, o almeno si erano molto incrinati.
Addirittura… e secondo te perché?
Mah… da una parte la ragione più logica è che Lucio voleva fare cose differenti. Poi c’è la storia della ripartizione dei diritti… Ma c’è anche una voce secondo cui fu una vendetta personale di Grazia, della moglie, perché a un certo punto, quando Lucio andò in Spagna, Giulio gli fece conoscere un’amica della Elettra Morini, la compagna di Tony Renis – e lui si invaghì di quella donna. Credo fosse il 1975. Lucio andò in Spagna e ci rimase per un po’, fino a quando Grazia non andò a riprenderselo e se lo riportò a casa – e da quel momento lei la giurò a Mogol.
Però scusaci, dopo ci sono ancora quattro dischi insieme. Non è un po’ presto?
Sì, è vero, però ti assicuro che il clima era cambiato… Io le sentivo le battute feroci da parte di lei, al Mulino, quando si mangiava tutti insieme in cucina. Grazia è sempre stata una donna tosta…tostissima! Anche se con noi devo dire che è sempre stata gentilissima. Non abbiamo mai avuto problemi veri.
Tu poi sei partito per l’America…
Sì, la situazione per me era diventata impossibile. Non mi davano più lavoro… Ho realizzato un progetto discografico con la Caterina Caselli ed è stato l’ultimo. Poi c’è stato un periodo di riflusso e io avevo un’immagine molto precisa, molto specifica. Non ho potuto che andare in America. Sono rimasto là due anni e mezzo, tre anni circa, e ho lavorato per la Rolling Stones Records – facevo il direttore artistico. E’ stato l’ultimo scorcio di anni ’70.
Anche lui ha provato l’America in quel periodo. L’hai incontrato?
Sì, l’ho incontrato in California, anche se io stavo sull’altra Costa.
E cosa pensi di quel progetto – di Images?
Guarda, ho avuto modo di parlarne a lungo con Marva Jean Marrow, che era assolutamente disperata perchè stava preparando i testi di quel disco con desiderio assoluto da parte di Giulio di fare una traduzione letterale. La follia di Giulio in questo è stata totale, perché in America – lo sapete meglio di me come funzionano i testi – in America non importava a nessuno di quelle tematiche. E poi, tradotti letteralmente e cantati con la pronuncia romanesca – all’amatriciana! Io poi ho avuto un contatto con l’RCA di New York, mi avevano chiesto di fare uno studio sul video disco, che allora era la grande novità e loro avevano il brevetto… Insomma, ho un po’ indagato e mi è stato raccontato che loro non è che ci credessero tanto in quel progetto. La verità è che avevano un debito di 400.000 dollari, o 400 milioni, adesso non ricordo bene, avevano ’sto debito con la sede italiana e allora l’hanno appianato facendo quel tipo di operazione.
La copertina era molto diversa dalle tue…
Mmmh, sai, se ripensi a Black And Blue dei Rolling Stones, c’era questa tendenza molto cruda… luci in faccia il più possibile, flash circolare e cose del genere. Quindi è venuta una macroimmagine molto dura, ma poteva anche starci. Il punto chiave secondo me è un altro; è che a quei tempi valeva il discorso per cui tutto ciò che era latino era latino, doveva seguire certi standard. Ed è un peccato perchè Battisti piaceva non solo in Italia, anche gli stranieri capivano che c’era qualcosa di straordinario in un autore così. Una volta ricordo che è venuto nel mio ufficio David Bowie e mi ha cantato Il mio canto libero… gli piaceva un sacco. Io resto dell’idea che si sia persa un’occasione. Ci sono due cose italiane, secondo me, che potrebbero avere un grandissimo successo negli Stati Uniti: una è la taranta, che a mio avviso riempirebbe gli stadi, e l’altra è Battisti. Però attenzione: in italiano, mai in lingua americana. Allora non sarebbe stato accettato, oggi dico di sì.
Ma Battisti a quell’avventura ci credeva o no?
Non lo so. Secondo me lui ha… secondo me no. E’ andato, si è fatto una vacanza, si è fatto un’esperienza e via dicendo… però…
Tu che l’hai incontrato in quei giorni… com’era? Allegro, incasinato?
Il fatto che lui dicesse che era il più forte di tutti… Secondo me a volte era un po’ patetico; e penso che fosse dovuto a un problema di grossi problemi di inferiorità. Lui ha sempre avuto un complesso d’inferiorità a livello culturale, un complesso enorme. Si reputava una persona ignorante ed era una cosa che gli stava stretta. Allora reagiva con un atteggiamento classico contro la cultura, cioè: odio la cultura perché in realtà la amo ma non la posso raggiungere.
Di lì a poco tu sei uscito dal mondo della musica e hai preso un’altra strada. Perchè?
Guarda, io sono uscito dal mondo della musica per una ragione fondamentale: il mondo della musica americana è stato una grande delusione. Se ci ripenso oggi trovo che sia tutto logico, ero io che mi illudevo: a quei tempi si vendevano milioni e milioni di pezzi, e con un business del genere capisci che non c’era niente da fare a livello creativo. La copertina veniva scelta secondo ricerche di mercato, erano i grandi negozianti a dire questo sì, questo no. I musicisti erano dei tecnici, anche loro mi hanno deluso, gente come Peter Tosh… L’unico artista ad avermi affascinato è stato Frank Zappa. Devo dire la verità, ho trovato più forza creativa in quei quattro cazzoni che c’erano qui in Italia che in quelli lì; nel senso che i cazzoni almeno il cuore lo avevano, gli altri neanche quello. Qualcuno me l’ha anche detto, a un certo punto. Mi ha detto: guardi che forse lei qui sta sbagliando, forse l’artista è lei, c’è un errore, dovrebbe fare un altro mestiere…
Aggiungete poi la storia durissima della morte di Demetrio che ho vissuto in prima persona, perché ero in America quando è morto e ho assistito alla sua malattia: portavo sua moglie al Memorial Hospital, avevo dei rapporti molto stretti.. E’ stata durissima. Io che lo avevo conosciuto da ragazzo, vedere come era ridotto alla fine… Ti viene da dire: ma che cazzo me ne fotte di stare qui a rompermi! Sono rimasto ancora un po’ perché ho avuto un finanziamento dalla Chase Manhattan Bank e una borsa di studio della Rockefeller Foundation, poi sono tornato. E ho fatto altro: ho fatto il regista, ho fatto film pubblicitari.
Battisti non l’hai più visto?
No, non l’ho più incontrato – e il mondo della musica l’ho abbandonato completamente.
Senti, è stato un lungo racconto affascinante… A questo punto abbiamo bisogno di un gran finale. Dacci in tre parole, in tre concetti, un giudizio complessivo su Lucio Battisti.
Io credo che Battisti stia alla musica italiana come i Beatles stanno alla musica inglese. Con i suoi lati positivi e negativi, come loro: che hanno scritto le canzoni più belle, le melodie più ricordate, i pezzi di riferimento… e magari anche qualche colossale sciocchezza. Un’altra cosa assolutamente vera è che è stato il primo il primo musicista tecnologico. Anche qui con luci e ombre: in sala di incisione era un dio, fuori dalla sala non lo era. E la dimostrazione è che lui dal vivo non ha mai reso, quando ha fatto le tournées è stato un disastro. E’ stato un grande artigiano di sala, e forse le cose migliori le ha fatte quando aveva pochi mezzi, con Patergnani in via dei Cinquecento, con il 4 piste. Comunque era uno sperimentatore, l’ho detto e lo ripeto, è il lato della sua personalità che mi ha colpito di più. Chissà cosa avrebbe fatto col tempo. Non so, con uno così poteva nascere qualcosa di veramente nuovo e intelligente.
Vi faccio un esempio. Qualche tempo fa è venuto da me Ivano Fossati e mi ha chiesto di realizzare un DVD. Gli ho risposto: ti dico di sì, accetto, ma solo se tu sei disposto a metterti sul mio stesso piano. In parole povere: non faccio il DVD del tuo concerto, non me ne può fregar di meno… Se tu concepisci il DVD come un’opera differente, in cui la musica ha un ruolo come l’immagine, come il testo, allora facciamo un’operazione totale. Che è l’operazione del futuro.
Secondo te Battisti l’avrebbe fatto…
Secondo me sì. Assolutamente sì. Perché se tu gli chiedevi di fare la colonna sonora di un film… Sai quante volte gliel’ha chiesto Bonivento? Battisti lo mandava a quel paese. Lui non era tipo da fare le colonne sonore. Lucio Battisti era uno avrebbe fatto un film! E ti faccio l’esempio del mio campo. Lui aveva la passione della fotografia… una vita mi ha stressato, veniva in camera scura con me, curiosava, voleva sapere. Lucio era fatto così. Non so, scopriva l’idraulica? Si metteva a fare l’idraulico!
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