Una tempesta elettrica

Jimi Hendrix: non solo un chitarrista visionario e prodigioso, ma un artista a tutto tondo, che ha portato la musica in territori ancora oggi da esplorare.

Il 27 novembre 1942, nasce a Seattle un bimbo di nome Johnny Allen Hendrix. James Mashall sarà poi il suo nuovo nome, cambiato dai genitori piuttosto sbandati. Presto scapperà di casa per andare in cerca di fortuna nella musica, facendosi chiamare perlopiù Jimmy James. Una gavetta di completo anonimato e di assoluta miseria come turnista nello sfondo di orchestrine r’n’b di semplice intrattenimento. Finché all’improvviso non diventa Jimi, e di colpo è il numero uno del pianeta, il performer più pagato del mondo.

Jimi Hendrix è stato una meteora: tutto ciò che ha creato sulla scena del mondo lo ha fatto in soli quattro anni. New York, estate del 1966: la modella Linda Keith, fidanzata di Keith Richards, nota in un locale del Greenwich Village questo strabiliante chitarrista di ventitré anni e lo segnala a Chas Chandler, il bassista degli Animals, che stava lasciando il suo famoso gruppo per convertirsi in manager. Chandler è sbalordito e porta Jimi a Londra, unico bagaglio una Fender e un vestito. Lo fa esibire in un piccolo club davanti ai più grandi chitarristi del rock britannico: Eric Clapton, Jeff Beck, Pete Townshend, ci sono anche un paio di Stones. Sono tutti scioccati. È sbarcato un alieno. Forse per questo è così appassionato di fantascienza?

Già pochi mesi dopo il suo arrivo in Inghilterra, avvenuto nel settembre del 1966, l’esordiente Hendrix – che a malapena aveva scritto un paio di canzoni – pubblica il suo primo album, che subito schizza in cima alla classifica inglese, secondo solo all’epocale Sgt. Pepper dei Beatles. Are You Experienced? Undici brani che aprono le porte di un nuovo mondo musicale, molti di essi si affermeranno come altrettanti standard del rock.

Mentre gran parte dei musicisti della “British Invasion” che in quegli anni conquistano gli Usa si ispirano al blues dei neri d’America, Jimi è davvero un bluesman afroamericano. Ha attraversato controcorrente l’Atlantico, unico nero nell’Olimpo del rock bianco.

Il legame con le radici blues resta sempre forte. Una volta gli viene chiesto di definire il suo genere musicale in due parole, e lui risponde: “electronic blues”. Nella sua musica avviene una contaminazione unica di generi musicali, oltre al blues, il r’n’b, molto funk, il rock della svolta psichedelica e delle alchimie sonore più sperimentali, ma soprattutto la creazione tutta personale di un suono bruciante e visionario, evocativo, incentrato su una reinvenzione totale delle sei corde, che gemono, urlano, ma anche una reinvenzione dell’amplificatore usato come vero e proprio strumento musicale.

Fondamentale, però, è sapere che l’idolo di Hendrix era qualcuno che apparentemente non potrebbe essere più diverso da lui, cioè Dylan. Jimi nutriva una autentica venerazione per Bob Dylan, portava sempre con sé un album con i testi delle sue canzoni, faceva ascoltare in continuazione alle sue fidanzate del momento i dischi di Dylan. Perché le canzoni del menestrello di Duluth, con la loro scarna chitarra, l’armonica stonata, coi loro testi insoliti e penetranti, gli avevano insegnato che l’essenziale è l’autenticità, gli avevano dato il coraggio di esprimersi. Jimi Hendrix appunto non è il virtuoso come vorrebbero i luoghi comuni, è l’allievo migliore di Dylan. La sua “tecnica” è frutto di ispirazione, è per lui soltanto un mezzo per giungere all’espressione artistica. 

Importante anche il riferimento al jazz, bisognerebbe parlare di quanto sia stata affine al chitarrista di Seattle l’impostazione jazzistica di Mitch Mitchell, batterista della Jimi Hendrix Experience, e per esempio si dovrebbe parlare dei progetti di Jimi insieme a Miles Davis, vanificati dalla morte del chitarrista. In seguito, e oggi sempre di più, il mondo del jazz contemporaneo ha trovato nella musica di Hendrix un territorio assolutamente congeniale. Basti pensare all’importanza capitale dell’improvvisazione per Jimi, in studio, sul palco, nelle continue jam. I suoi brani, che su disco rispettavano perlopiù la ferrea regola anni Sessanta dei 3 minuti – altrimenti non passavano in radio – spesso in concerto duravano quasi un quarto d’ora.

Hendrix, è stato detto, è il primo musicista che trasforma il rumore elettronico in musica, in particolare il feedback che parte involontariamente dagli amplificatori quando il segnale amplificato rientra dai pickup dello strumento. Jimi produce intenzionalmente quel “rumore”, quel potentissimo fischio, e lo distorce, lo modula alterandolo con la leva del tremolo e in mille altri modi, ottenendo così un potenziale espressivo atonale e astratto che utilizza strutturalmente nei suoi brani, non come abbellimento. E che verrà compreso appieno solo col diffondersi dei sintetizzatori.

L’esempio più leggendario è la sua esecuzione dell’inno americano a Woodstock. Sotto le lunghe dita nere dell’ex aviatore statunitense, la Stratocaster genera il rombo degli aerei da guerra americani, il sibilo e l’esplosione delle bombe, il pianto acuto delle donne, dei bambini vietnamiti, le mitragliatrici. Questo momento è una delle icone più vertiginose di tutta l’arte del Novecento.

Jimi era una persona schiva, anzi timida, con una bellissima voce di cui non si parla mai, perché tutto è offuscato dal suo essere il più grande chitarrista rock di sempre. Sul palco si trasformava, dimenticava tutto il resto, magnetizzava gli spettatori in un rituale magico di cui lui era il medium, il “Figlio del Voodoo”. In ogni sua nota c’è una intensità d’anima senza pari. La differenza che passa tra il suonare con le dita e il sentire ce la dice una sua frase divenuta celebre: “Blues is easy to play, but hard to feel”.

Anima, e al tempo stesso una qualità estetica suprema, quell’azzardo totale e quell’istintiva capacità di trovare all’improvviso la cosa giusta, che contrassegnano il genio. Dice Eddie Kramer, il suo fedele sound engineer, che Jimi sapeva valorizzare perfino gli errori degli altri. Per questo l’immenso giacimento delle sue registrazioni live e delle sue jam in studio costituiscono molto di più che un complemento ai suoi soli tre album in studio pubblicati nella breve vita artistica. 

Anima, e al tempo stesso corpo. Jimi aveva una relazione assolutamente erotica con la Stratocaster, ci si accoppia selvaggiamente contro il muro dei Marshall, le dà fuoco nel festival di Monterey con cui di colpo, nel 1967, conquista la sua America, un fuoco sacrificale, il fuoco della passione che è vita e distruzione insieme. La meteora Hendrix è un artista dionisiaco, un artista dell’estasi, della creazione e della simbolica distruzione. La sua arte è una particolare religione elettrica, interamente musicale. Con le sue parole: “We call it Electric Church, ’cause music is like a religion to us”.

di Giovanni Sampaolo

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