Dylan LeBlanc – Coyote (2023)

di Pierpaolo Tinelli 

Coyote è il titolo del quinto album di Dylan LeBlanc e un coyote coerentemente campeggia sulla copertina dalla grafica piuttosto curiosa, che ricorda quella delle carte dei tarocchi (alcuni dei quali sembra siano inclusi nella versione in vinile, non a caso…). Quattro enigmatici calici attorniano questo animale dall’espressione imperturbabile, nonostante sia trafitto da molte frecce, come un San Sebastiano. Facendo fede alla cartella stampa, c’è una doppia chiave di lettura per titolo e cover dell’album: da un lato LeBlanc ha preso spunto da un episodio autobiografico in cui si è trovato vis-à-vis con un vero coyote, incontro non dei più rassicuranti, come si può ben immaginare, dall’altro si tratta di un concept album dedicato alla figura di un uomo in fuga, dal soprannome di Coyote appunto, che non dovrebbe trattarsi di altri che dell’alter-ego di Dylan LeBlanc stesso.

Questo nuovo lavoro è pubblicato, così come il precedente (Renegade, del 2019), dall’interessante e solida label newyorchese ATO, dalla vita ormai ultraventennale e che ha in catalogo (solo per citare quelli di mio maggior gradimento) gli album di Albama Shakes e Black Pumas. Dylan LeBlanc è nato nel 1990 in Louisiana ed è figlio di James, autore e musicista ben conosciuto ed inserito nel milieu della musica country di Nashville e dintorni. Bisogna però dire che il figlio ha ormai superato il padre, non fosse altro che per aver già pubblicato a suo nome ben cinque album. Dylan vanta una lunga e consolidata esperienza da musicista negli stati del Sud, oltre alla natia Louisiana, Texas, Alabama e Tennessee. L’album è stato registrato nei leggendari (qui è proprio il caso di dirlo) Fame Recording Studios di Muscle Shoals, Alabama. Per chi ha dimestichezza con questo studio e questa cittadina, è inutile ricordare quanti e quali album capolavoro siano stati incisi in questo posto incredibile, dove musicisti, cantanti e autori bianchi e neri hanno dato vita in armonia ad una miscela unica di rock, country blues e soul.

Questi ultimi sono anche i generi che caratterizzano Coyote, album in cui si respira un’atmosfera calda ed avvolgente, grazie agli arrangiamenti ricchi e complessi al punto giusto, mai eccessivi. L’ispirazione generale mi sembra in linea con quel movimento neo-West Coast, ispirato alle sonorità di Laurel Canyon, cui fanno riferimento personaggi come Jonathan Wilson. L’influenza di quest’ultimo in particolare mi sembra innegabile, soprattutto per gli arrangiamenti e le orchestrazioni. Alcuni brani (quelli più country) mi hanno fatto pensare al penultimo disco Dixie Blur, mentre quelli più elettrici, come Wicked Kind, sono debitori del Wilson magistrale di Fanfare. LeBlanc è sostanzialmente il deus-ex-machina dell’album, dato che ha composto tutte le canzoni, canta, suona diversi strumenti e, per la prima volta, è anche produttore. Significativa comunque la presenza di musicisti di rango, come il batterista Fred Eltringham, il bassista Seth Kaufman ed il pianista Jim Brown, tutti collaboratori di grandissimi nomi della scena pop e rock internazionale.

Devo dire che non mi fa impazzire il timbro della voce di Dylan, ma è solo gusto personale, le sue capacità strumentali, compositive e la sua ispirazione non sono assolutamente in discussione. Voglio segnalare in particolare due brani, che sono anche (forse non casualmente) quelli meno allineati al resto del disco. Il primo è proprio Wicked Kind, che lentamente ma inesorabilmente sale di intensità e quasi senza accorgertene ti ritrovi nel bel mezzo di un vortice psichedelico di chitarre riverberate e distorte. Il secondo è The Crowd Goes Wild (bel titolo!), verso la fine dell’album, che è un midtempo dalla trascinante ritmica quasi proto-disco (o modern soul, se preferite) e un’orchestrazione soulful tipicamente anni ’70.

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