Robert Wyatt - Rock Bottom (1974)
L’album Rock Bottom di Robert Wyatt è uno di questi. Un viaggio negli abissi dell’oceano che cela simbolicamente il viaggio dentro noi stessi, alla scoperta degli angoli più bui dell’inconscio. Quegli angoli che Wyatt ha conosciuto bene dopo l’incidente che lo ha costretto su una sedia a rotelle. Caduta accidentale o tentato suicidio? Chissà… ma non è questo che importa. Comunque sia andata, Robert è dovuto rinascere, inventandosi una nuova esistenza per vivere quella inaspettata condizione. La sua ricetta? Annullare completamente quello che era stato musicalmente e umanamente. Per vivere, ogni ricordo doveva essere cancellato. L’accettazione, altrimenti, sarebbe stata impossibile e la depressione troppo forte da combattere.
Rock Bottom è tutto questo. Raccontando una storia, richiede di essere ascoltato dall’inizio alla fine. Se dovessi, però, estrapolare un singolo ascolto per suggerirvelo, direi: Little Red Riding Hood Hit The Road.
Un capolavoro dove i generi rompono i confini e si mescolano: dal free jazz al rock progressive.
Le infinite sovraincisioni del trombettista jazz Mongezi Feza, sfuggito all’apartheid sudafricana e rifugiatosi a Londra, penetrano ogni difesa. Seguono parole-non-parole, istantanee strozzate e sincopate dell’incomunicabile esperienza del panico.
La voce di una talpa, verso la fine, emerge per lanciare simbolicamente il suo urlo rivoluzionario, quello di chi è sempre rimasto invisibile e adesso sorge per reclamare violentemente un proprio posto nell’esistenza, rovesciando il proprio ruolo di creatura destinata soltanto a essere appiattita dai pneumatici delle auto.
Tale voce è di Ivor Cutler, poeta autore di epigrammi ironici e autista del bus nel film Magical Mistery Tour dei Beatles.
Una trovata meravigliosamente inaspettata, una voce fuori dal coro che rovescia la prospettiva, allontanandola dal senso comune e riuscendo a strapparci un sorriso pur nella sofferenza.
L’incomprensibilità dell’agire umano e il suo rifrangersi nell’esistenza altrui è cruccio costante di chi ha la sfortuna di avere uno spirito sensibile. Non sono in molti a domandarsi quanto le proprie scelte e le proprie azioni possano ferire l’altro. Robert se lo domanda continuamente… forse se lo chiede anche verso se stesso. I didn’t mean to hurt you… qualcosa che suona quasi profetico se pensiamo all’incidente che lo ha visto coinvolto.
Il sublime interrogativo rimane senza risposta: perché in questa esistenza ci facciamo del male?
di Dario Giardi
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