Sigur Rós - Átta (2023)

 di Fabio Gallato

È sempre difficile fare i conti con un disco che interrompe un silenzio lunghissimo, a maggior ragione se si parla poi di un’entità complessa e aliena come i Sigur Rós: la band islandese ci aveva lasciato nel 2013, e di questi tempi 10 anni sono un’eternità, con un lavoro sorprendente, maestoso e drammatico, quel “Kveikur” che li vedeva impegnati a fronteggiare con successo sonorità elettroniche e industriali, a padroneggiarle come se lo avessero fatto da una vita. Un vero e proprio disco di rottura, che segnava una netta linea di separazione tra un prima e un dopo, ma un dopo nei fatti non c’è stato.

“Stiamo invecchiando e diventando più cinici, quindi volevo solo che ci commuovessimo in modo che provassimo qualcosa“, ha detto Jónsi presentando il nuovo “Átta“, che è uscito a sorpresa, senza alcun tipo di preavviso lo scorso fine settimana. In queste parole c’è tutto il senso di un lavoro che nei fatti ritrae la mano per tornare nei ranghi delle atmosfere che hanno reso grandi i Sigur Rós e che qui abbracciano l’ambient e la neoclassica, in un’ottica che li riporta al divisivo “Valtari“.

È un disco sontuoso ed elegante che si schiude lentamente in un mare magnum di suoni ma, a dispetto della presenza di un’orchestra di 41 elementi (la London Contemporary Orchestra), del fido ensemble di ottoni Brassgat í bala e del lavoro encomiabile del rientrante polistrumentista Kjartan Sveinsson che rientra in formazione, appaiono fin troppo omogenei, funzionali più alla ricerca dell’ampiezza emotiva piuttosto che dell’emozione in sè. “Átta” è certamente un’opera che in alcuni momenti colpisce, soprattutto nel suo muoversi in bilico tra intimismo e grandiosità (Skel e Klettur sono bellissime ed esemplari da questo punto di vista), ma è un aspetto questo a cui i Sigur Rós ci hanno abituato fin da subito, e meglio.

È concepito per un ascolto unitario, ma è proprio nel suo complesso che mostra di soffrire di immobilisimo e uniformità. Non aiuta in questo senso la quasi totale assenza di percussioni, ma nemmeno il fatto che tutti i brani si muovano lungo i binari di un crescendo che alla lunga suona prevedibile. La vera novità di “Átta” è la sua vocazione spirituale, preponderante in brani come Andrá o Ylur, ma l’oggetto della devozione fatica ad emergere, sommerso dalla performance vocale di Jónsi, impeccabile sì, ma per la prima volta ingombrante e poco coinvolgente.

Se preso come un mezzo per evadere dalle brutture del presente allora “Átta” è perfetto, ci regala un’ora di pura estraniazione e contemplazione. Ma i Sigur Rós sono altro, sono un abbraccio per l’anima, un volo interdimensionale che piega lo spazio e il tempo al suo volere, un turbinio di emozioni che ci costringe a fare i conti con noi stessi per poi renderci migliori. E tutto in questo in “Átta” non c’è.

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