Paul Simon - Seven Psalms (2023)

 di Gabriele Benzing

Da dove vengono i sogni? Sono solo una sequenza di impulsi elettrici o sono un territorio di confine, una sorta di spazio liminale tra il visibile e l'invisibile?

Il 15 gennaio del 2019, Paul Simon ha fatto un sogno. Ha sognato di lavorare a un disco intitolato "Seven Psalms". Al risveglio, come da manuale del buon onironauta, si è subito appuntato quelle due parole su un blocco. "Non ero nemmeno sicuro di sapere che cosa fosse un salmo. Così sono andato a prendere una Bibbia, ho dato un'occhiata ai Salmi e mi sono detto: beh, visto che non so di che cosa si tratti e che non è una mia idea - qualcosa o qualcuno in un sogno mi ha detto di fare così - allora facciamolo". Decifrare un sogno, in fondo, è proprio questo: lasciarsi accompagnare oltre la soglia, non affannarsi nelle analisi.

Quasi ogni giorno, tra le tre e le cinque del mattino, Simon ha cominciato a svegliarsi all'improvviso con l'eco di nuove parole. I sogni che arrivano prima dell'alba, diceva Pavel Florenskij, sono quelli connaturati da un'essenza mistica: "puro senso racchiuso in un involucro sottilissimo". E così, quei sogni hanno cominciato a diventare una forma molto particolare di canzoni.

"Seven Psalms" si presenta subito come un capitolo a parte nella discografia di Simon: un'unica traccia divisa in sette movimenti, una suite acustica di poco più di mezz'ora in cui si condensa lo spirito più contemplativo della sua musica. La vita, la morte e quello che ci aspetta dopo: Simon si inoltra al di là dell'orizzonte non più attraverso l'ironia con cui una dozzina di anni fa (ai tempi di "So Beautiful Or So What") cantava "The Afterlife", ma con uno sguardo sapienziale che ricorda da vicino quello del Leonard Cohen di "You Want It Darker". E se con "Stranger To Stranger" aveva realizzato il suo album più riuscito del nuovo millennio, ora si rimette in discussione con il lavoro meno immediato (e al tempo stesso più denso) della sua lunga carriera.

È un suono di campane a introdurre il viaggio, prologo all'ariosità di un arpeggio di chitarra che riporta subito alla memoria il Paul Simon degli anni Settanta ("There Goes Rhymin' Simon" e dintorni). "The Lord is my engineer", annuncia con il suo canto lieve, appena arrochito dalle stagioni della vita. "The Lord" è il tema conduttore del disco, che torna a più riprese tra un salmo e l'altro, tentando di ghermire i contorni dell'ineffabile. "The Covid virus is the Lord", arriva a dichiarare proprio lui, che della pandemia ha portato profondamente i segni. Ma il suo è un dialogo serrato con la realtà, che non si accontenta di facili certezze: "Are we all just trial and error/ One of a billion in the universe?".

Simon affronta le domande che si affacciano sulle melodie eteree di "Seven Psalms" con uno straordinario catalogo di strumenti musicali: dalla tiorba (un liuto di origine barocca) al chalumeau (antenato del moderno clarinetto), fino alle invenzioni microtonali di Harry Partch, come il chromelodeon (variante dell'organo a pompa) e le cloud chamber bowls (percussioni a base di damigiane di pyrex). Ai loro suoni si affiancano le voci dell'ensemble di musica a cappella Voces8, che Simon usa come una sorta di eco per le note della chitarra ("Non sembrano più voci, ma suoni estesi. Alcuni hanno pensato che avessi usato dei sintetizzatori").

La ricerca musicale si intreccia con quella esistenziale: in "Love Is Like A Braid", Simon racconta la sofferenza che sembra togliere il respiro ("I lived a life of pleasant sorrows/ Until the real deal came/ Broke me like a twig in a winter gale/ Call me by my name"), la discesa nella notte oscura dell'anima ("In that time of prayer and waiting/ Where doubt and reason dwell"), il confronto con la grande alternativa tra la disperazione e il senso ("All is lost/ Or all is well"). Non ci sono mai facili scorciatoie di benevolenza cosmica, nelle sue parole.

Nel trascolorare l'uno nell'altro dei sette capitoli di questo oratorio laico, il blues di "My Professional Opinion" è quello che parla il linguaggio più accessibile, accompagnato da un'armonica basso che riporta direttamente ai tempi di "Papa Hobo". La moglie Edie Brickell duetta con Simon sulle note di "The Sacred Harp", l'episodio più narrativo del disco, dove l'incontro con una coppia di autostoppisti diventa l'occasione per chiamare direttamente in causa il Re Davide, l'autore dei Salmi secondo la tradizione biblica (Leonard Cohen docet).

Ma è sul dipanarsi rarefatto di "Your Forgiveness" che Simon si spinge al culmine della sua ascesa mistica, sorprendendo l'universo in una goccia d'acqua: "Dip your hand in Heaven's waters/ God's imagination/ All of life's abundance in a drop of condensation". Un atomo di tempo in cui il visibile e l'invisibile si toccano, e ci è concesso di contemplare per un istante il loro sfiorarsi. Paradossale (come sa essere paradossale solo il fato) che proprio giunto a questo momento, Simon si sia reso conto di avere perso l'udito dall'orecchio sinistro. Del suo futuro musicale ci resta solo un grande punto interrogativo. In fondo, però, non è lo stesso per la vita di tutti noi?

"Wait", è la richiesta che si fa sentire davanti all'ombra del grande mistero che chiama. "I'm not ready".

Nessuno è pronto, quando è solo. Per questo, l'ultima invocazione è il bisogno di essere presi per mano: "I need you here by my side/ My beautiful mystery guide". Una compagnia verso il destino.

"Children, get ready", risponde dolcemente il sussurro di Edie Brickell. "It's time to come home". Si abbracciano, la sua voce e quella di Simon, e cantano un'unica parola, prima che i rintocchi delle campane lascino spazio al silenzio: "Amen".

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