Marty Stuart & Fabulous Superlatives - Altitude (2023)
A sessantacinque anni Marty Stuart è diventato il musicista che voleva sempre essere, ambasciatore di un suono “cosmico” americano e divulgatore di una country music che trova la sua profonda ragion d’essere nel passaggio di testimone avvenuto tempo fa da Nashville alla California, quando i freak psichedelici scoprivano le gioie della campagna e l’elettricità del rock’n’roll sposava la memoria del passato. Non tutti ci avrebbero scommesso, quando Marty era uno dei tanti “nuovi tradizionalisti” in cerca di un riconoscimento: grandi capacità allo strumento, da enfant prodige, forse con una visione meno determinata rispetto ad altri suoi colleghi usciti allo scoperto in quella lontana stagione, era la prima metà degli anni Ottanta.
Ora non ci sono più dubbi e tanto meno sudditanza, perché il marchingegno costruito con The Fabulous Superlatives è perfettamente oliato, una macchina che produce american music lucida e cromata, dando libero sfogo a una sagra di chitarre elettriche, con volteggiare di pedal steel, fiddle e piano, che è una sorta di enciclopedia dei suoni che si sono incrociati sulle grandi arterie stradali del paese: country, surf music, honky tonk, garage rock, blues e psichedelia che si rincorrono senza soluzione di continuità. In cantiere da sei anni, tanto è passato dall’ultimo splendido vagito della band con Way Out West, sorta di concept sull’attrazione dell’Ovest californiano e traversata del suo deserto, Altitude resta ancora nei paraggi e rimugina sull’amore indiscriminato per i Byrds e le chitarre di Roger McGuinn e del troppo spesso dimenticato Clarence White, sfortunato chitarrista della seconda fase del gruppo, qui un fantasma che aleggia su tutti i rimpalli e i dialoghi che Marty Stuart e il fedele Kenny Vaughan si inventano fra le loro sei corde.
A scacciare ogni dubbio sulla fonte di ispirazione (ma bastava la copertina, non trovate?) c’è lo strumentale Lost Byrd Space Train, diviso in tre parti lungo l’intera scaletta, e che se avrà preso quel titolo una ragione (seria) ci dovrà pur essere. Nel mezzo scorrono fiumi di ricordi e bilanci personali (l’esplosiva introduzione di Country Star) nonché riflessioni più prosaiche su quanto vissuto in questi anni (il jingle jangle da manuale di Sitting Alone), dove l’essenziale è rappresentato dallo scintillio sonoro e dai fuochi d’artificio dei Fabulous Superlatives, che si sono dati quel nome per un buon motivo e nessuno può sinceramente avanzare una sola rimostranza.
Completati dalla sezione ritmica di Harry Stinson e Chris Scruggs, con un fuoriclasse come Stuart al timone e un battitore libero a fargli da spalla (Kenny Vaughan, uno dei migliori a Nashville, chiedete in giro), sono la country’n’roll band ideale per il sabato sera, caricati a molla nella cavalcata tutta tremori country&surf di A Friend Of Mine, sottilmente western e psichedelici negli orizzonti di Space, un titolo e un programma, classici nel vestito honky tonk della festa in Altitude (George Jones approva, da qualunque parti si trovi, forse a farsi un goccetto al bar) e in quello baldanzoso e rockabilly di Tomahawk (e qui arriva anche Johnny Cash al bancone).
Album nato “on the road”, tra una celebrazione e un anniversario, un nuovo teatro da inaugurare (l’Ellis Theater nella sua nativa Philadelphia, Mississippi) e un altro dove tornare a fare festa (lo storico Ryman Auditorium dove Stuart è ormai di casa), Altitude mette in fila le luci abbaglianti della città (Vegas, pezzo di purissima cosmic cowboy music), le notti blues dei locali (una Nightriding che sarebbe piaciuta a Tom Petty, magari quando ascoltava JJ Cale), il rock’n’roll stradaiolo che punta da Nashville verso Memphis (Time to dance) e una preghiera acustica per far calare il sipario (The Angels Came Down). Tutto restituisce il miracolo di quella american music che nella sua memoria e nella capacità di interpretarla con tecnica e passione trova le ragioni per celebrarsi di continuo.
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