Iris DeMent - Workin' on a World (2023)
di Fabio Cerbone
Sette album in trent’anni di carriera e solo quattro negli ultimi due decenni, compresi una raccolta di tradizionali gospel (Life line) e un disco di poesie musicate dell’autrice russa Anna Akhmatova (The Trackless Woods), Iris DeMent è tra le più sfuggenti e appartate voci del folk americano, che tuttavia sembra stendere la sua ombra di influenza e rispettabilità su buona parte delle colleghe più e meno giovani, che in lei probabilmente riconoscono una madrina e un vero esempio di integrità artistica. Dalla fattoria nell’Iowa dove vive con il marito Greg Brown - altro recluso della canzone americana che non lancia segnali da tempo, e pare ormai in procinto di ritirarsi dalle scene - la nostra Iris spezza il silenzio discografico risorgendo con un’opera fra le più potenti della sua parca produzione, sia per il tessuto lirico agganciato alla contemporaneità americana, sia per le trame musicali, insolitamente vivaci rispetto alla riconosciuta austerità acustica degli album precedenti.
Frutto di un lavoro lungo sei anni, lasciato maturare come il buon vino e volgendo lo sguardo intorno all’umanità ferita di queste stagioni, Workin’ On a World è una medicina musicale per il mondo, una raccolta di canzoni che immergono le mani nelle acque sacre del gospel, nella tradizione sudista del country e fra la potenza narrativa del folk per emergere con una ricetta di amore e compassione. La traccia omonima non è caso collocata in apertura: “I’m workin’ on a world/ I might never see” canta Iris DeMent, consapevole della strada in salita per annullare gli odi reciproci fra le comunità, ma è l’unica utopia possibile per uscire dal pantano. La musica si colora di un fervore soul innodico, con l’intervento dei fiati, e quella voce squillante, che è sempre apparsa antica come il mondo, fin dallo splendido disco di esordio della Dement, quell’Infamous Angel che pochi mesi fa ha compiuto trent’anni di vita.
Affiancanta e spronata passo dopo passo dalla figlia acquisita Pieta Brown, anch’essa musicista e qui nel ruolo di produttrice con Richard Bennett e Jim Rooney, gente dell’altra Nashville che sa dove e quando intervenire senza snaturare il suono “primitivo” di Iris, cresciuta fin da bambina in un ambiente di spiritual e arcaiche ballate folk, la Dement di Workin’ On a World abbraccia il dolore e le contraddizioni della società americana (la strepitosa e dylaniana Goin’ Down to Sing in Texas, brano dallo spunto autobiografico che affronta il tema del controllo delle armi da fuoco), evoca gli eroi sacrificali della nazione (il Martin Luther King citato in How Long; l’altra grande figura dei “diritti civili”, il deputato della Georgia John Lewis scoparso nel 2020, in Warriors of Love) e mette in comunicazione roots music, religiosità e segno poetico (la fragile accoppiata di ballate pianistiche di Let Me Be Your Jesus, canzone dal tono drammatico scritta dal marito Greg Brown, e The Cherry Orchard, ispirata dall’omonima opera di Chekhov).
Con un ruolo effettivamente più centrale del pianoforte nella composizione, suonato dalla stessa Iris (accade in Say a Good Word, I Won’t Ask You Why, ma soprattutto nello struggente capolavoro dell’album, Mahalia, dedicata alla figura della cantante gospel Mahalia Jackson, qui descritta come figura femminile che porta su di sé la sofferenza del mondo intero), eppure mantenendo una certa esuberanza strumentale che spezza l’intensità di alcuni passaggi (il country elettrificato e imbevuto di soul di The Sacred Now e della dolcissma chiusura di Waycross, Georgia, quello declinato sulle speziate cadenze blues di mandolino e steel guitar in Walkin’ Daddy), Workin’ On a World è una lezione di american music viva e calata nel presente del paese che descrive, lontana da qualsiasi intento consolatorio o peggio nostalgico, come troppo spesso accade a chi affronta i linguaggi della cosiddetta tradizione. Ed è, ma forse vi era già chiaro da qualche riga, uno dei dischi americani più importanti di questo 2023.
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