Ali Farka Touré – Voyageur (2023)
di Matteo Bossi
Dopo la lettura che gli aveva riservato Marco Denti sul n. 157 di Il Blues, torniamo ad occuparci di Ali Farka Touré per l’arrivo, inatteso e forse per questo ancor più gradito, di “Voyageur” (World Circuit), primo album postumo, a ben diciassette anni dalla sua scomparsa, e a tredici dalla pubblicazione di “Ali And Toumani”, cointestato con Toumani Diabate. Un lavoro, malgrado sia ricavato da registrazioni recuperate in periodi e luoghi disparati, estemporaneamente, suona unitario come un album, consentendoci di apprezzare, una volta di più, un enorme artista. “Ali era un baobab”, scrive il suo amico e allievo Afel Bocoum nelle note (è presente anche in alcune tracce), “un albero longevo, tenace e paziente, dai molteplici usi anche quando il suo ciclo vitale si è completato.”
Ascoltando queste nove canzoni, alcune delle quali incompiute e rifinite ex post, in maniera molto rispettosa, sotto la guida del figlio Vieux Farka e di Nick Gold, si staglia ancora più nettamente la figura di Ali Farka, artista carismatico, riconoscibile dalle prime note. La sua conoscenza di stili e repertori afferenti a molte aree dell’Africa occidentale avevano pochi eguali, tanto è vero che, anche in questi brani, canta in cinque lingue ed è sempre a suo agio con accanto ensemble di varia composizione.La chitarra di Ali Farka è sempre lì, al centro, suonata con una naturalezza che fa sembrare tutto scorrevole, celando in realtà stratificazioni e passaggi intricati, densi di significati. Poco importa che faccia rivivere un canto tradizionale, rivisiti a suo modo, canzoni d’amore o dedichi un brano ai pescatori Bozo; la sua eccezionalità la si coglie ovunque.
In tre brani, risalenti a metà anni Novanta, troviamo la presenza di Oumou Sangaré, bravissima cantante, a sua volta titolare di una discografia di ottimo livello. (si pensi a “Worotan” o al più recente “Timbuktu”). I due si trovano a meraviglia nella sensuale “Cherie” o in “Sadjona”, registrata durante un soundcheck. In quest’ultima, Sangaré è la voce solista, si tratta di un pezzo della tradizione wassolou, molto evocativo, in cui ritroviamo anche il sax di Pee Wee Ellis (scomparso nel 2021). Bellissime anche le due versioni di “Sambadio”, la prima in acustico con il gruppo di ngoni guidato da Bassekou Kouyate, ( con lui anche nella mesmerica “Kombo Galia”). La seconda elettrica, di nuovo con Ellis e Steve Williamson ai fiati. L’arte di Ali Farka si apprezza anche in formazione ridotta ai soli Hama Sankare (calebasse) e Badi Ag Agali (seconda chitarra) per l’affascinante e risqué “Malahani”. Una vera fortuna ascoltare questa appendice alla discografia di colui che non è stato “solo” uno straordinario artista.
Vale poi, senza dubbio, la pena di recuperare “Ali” (Dead Ocean) album tributo ad Ali Farka, uscito lo scorso autunno. Nato da una collaborazione, in apparenza non così immediata, eppure del tutto riuscita, tra suo figlio Vieux Farka Touré e il trio di Houston Khruangbin, una formazione che si muove da alcuni anni inglobando suoni ed influssi disparati. Non a caso hanno scelto di chiamarsi con una parola thailandese che significa macchina volante o aeroplano ed un loro aspetto distintivo è proprio la malleabilità nell’accostarsi a culture differenti. Qualità evidenti nel groove circolare che si instaura per tutte le otto tracce di questo progetto con Vieux, registrate in pochi giorni, privilegiando l’immediatezza del momento.
Vieux, visto sovente anche in Italia, non è nuovo a partnership inusuali, ha suonato, per citarne solo alcuni, con Idan Raichel, John Scofield Derek Trucks, ma raramente si è cimentato col repertorio paterno. Già l’essere figlio d’arte non dev’essere un peso da poco, oltretutto Ali Farka lo aveva sconsigliato dal fare musica da ragazzo, memore delle difficoltà e delle delusioni vissute in prima persona. Passati i quarant’anni era evidentemente arrivato al punto di potersi confrontare con l’eredità del padre e grazie anche all’incontro coi Khruangbin, senza replicarla in modo pedissequo, anzi portandola a germogliare in un altrove musicale non scontato.
E il disco funziona proprio perché è fondato su una cosa apparentemente semplice, il suonare insieme e non sull’intellettualizzazione o sullo sforzo di dover aderire ad un modello (peraltro difficilmente eguagliabile). Forse non è un caso che Vieux abbia scelto di iniziare da “Savane”, canzone titolo dell’ultimo disco di Ali, posta lì proprio per stabilire la direzione sonora, la spaziatura delle note, specie del basso di Laura Lee Ochoa, con la voce e la chitarra di Touré figlio ad instaurare un clima progressivamente ipnotico. Un’atmosfera che si mantiene lungo tutto il resto del lavoro; fluttua tra le pieghe di “Diarabi”, si insinua nelle svisate di “Mahine Me”, avvicinandosi quasi ai sapori della Louisiana. Si arriva, senza accorgersene, ai titoli di coda sulle note di “Alakarra”, che potrebbero idealmente saldarsi a quelle d’inizio, riprendendo così l’ascolto di un bel tributo.
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