Margo Price - Strays (2023)

 di Nicola Chinellato

Basta dare un‘occhiata alla biografia di Margo Price, per rendersi conto di come la songwriter originaria dell’Illinois sia l’archetipo della musicista country. E’ cresciuta nella piccola cittadina di Aledo, dove ha svolto lavori umili per foraggiare i suoi sogni di musicista, la sua famiglia ha perso la fattoria, ha dovuto impegnare la sua fede nuziale, ha conosciuto la prigione e la dipendenza dall’alcool: la sua vita, insomma, somiglia molto da vicino al canovaccio di tante canzoni country, genere che è stato l’ossatura dei suoi primi due album.

La Price, però, da spirito inquieto qual è, sentiva il roots come punto di partenza e non di arrivo, e il desiderio di esplorare l’ha spinta a cercare nuove forme espressive. That’s How Rumors Get Started, uscito nel 2020, se non fosse per quel timbro di voce immediatamente riconoscibile, sembrava il parto di un’altra musicista, era una raccolta di canzoni lontana mille miglia da quel suono che avevamo conosciuto nei suoi due primi lavori, Midwest Farmer’s Daugther del 2016 e All American Made del 2017. Le dieci canzoni di quella scaletta, infatti, suonavano prevalentemente pop rock, strizzavano l’occhio, almeno in alcuni casi, a sonorità radiofoniche, e si scrollano di dosso la polvere del country old style dei due predecessori, pur mantenendo nella declinazione un vellutato accento sudista.

Con Strays, un titolo che ammicca al suo girovagare musicale, la Price opta per una scelta di assoluta libertà, spostando ancora più in là i suoi confini espressivi. E non è un caso che le prime parole del disco siano una ferma dichiarazione d’intenti: “I Got Nothin’ To Prove” (“non ho più niente da dimostrare”), come a voler suggerire all’ascoltatore un approccio musicale ormai svincolato da ogni altrui aspettativa. Quando parte l’opener "Been To The Mountain", introdotta da inquieti synth e sorretta da una fumosa linea di chitarra, è chiaro che la Price ha fatto un ulteriore passo in avanti: il brano è un rock ipnotico, psichedelico, a cui sottende Patti Smith (ascoltate il tappeto di synth, le chitarre acide e il cantato della seconda parte del brano) e che è animato da un’urgenza espressiva palpabile e vibrante. Un inizio esplosivo che mette subito le cose in chiaro: posso fare quello che voglio e ho una voglia incredibile di sbrigliare tutte le mie fantasie. E se è vero, come si dice, che alla base di queste composizioni ci sia stata una psichedelica dieta a base di funghi magici, condivisa con il marito Jeremy Ivey (coautore di alcuni brani in scaletta) questo brano iniziale ne è la prova più eclatante.  

La successiva "Light Me Up" è un altro pezzo da sballo, parte morbida e acustica, e poi rotola via veloce trainata dalla chitarra di Mike Campbell (Tom Petty), che crea un’atmosfera settantiana, spingendo forte sul pedale wah wah. Tutto splendido, tutto incredibilmente eccitante. La Price, però, è musicista volubile, e cambia subito le carte in tavola, sperimentando con l’amica Sharon Van Etten nell’anomala "Radio", un brano che fonde elettronica, country e melodia mainstream. Nemmeno tre minuti, e si riparte con il rock blues cadenzato di "Change Of Heart", brano muscolare e melodia orecchiabilissima, seguito, poi, da una delle gemme dell’album, l’emozionante ballata pianistica "County Road", un brano che riporta alle atmosfere di "That’s How Rumors Get Started", i Fleetwood Mac a ispirare e un pathos malinconico e struggente che attraversa sei minuti capaci di spappolare anche un cuore di pietra (ascoltate, poi, quanto sono eleganti gli arrangiamenti di Jonathan Wilson, qui in veste di produttore).

Che la libertà espressiva sia la chiave di lettura di Strays, lo si comprende dalla successiva "Time Machine", che cambia rotta verso il puro divertissement punteggiato da delicate armonie per piano e synth, per poi virare nuovamente verso la ballata in mid tempo di "Hell In The Heartland", il cui tappeto melodico è creato da pedal steeel e resofonica, come a ribadire l’antico legame della Price con la tradizione. Una scaletta ricca di grandi canzoni, la cui varietà produce, brano dopo brano, un avvincente effetto sorpresa, come avviene in "Anytime You Call", ospiti le Lucius, ballata dai forti accenti lennoniani, e "Landfill", dolcissimo commiato avvolto da una nuvola di pedal steel e trasognati riverberi, che conduce l’ascoltatore a fluttuare a mezz’aria, come immerso in un estatico liquido amniotico.

Lascio per ultima "Lydia", l’unica canzone scritta da Margo Price senza alcun contributo esterno, un brano talmente intenso da cannibalizzare l’intera, già splendida, scaletta. Chitarra acustica, voce e dissonante arrangiamento d’archi, per raccontare la storia di una donna travolta da un’esistenza senza speranza, tra droghe, aborto, un’infanzia livida di dolore e un presente che affonda nel cuore come un pungolo che non dà tregua: “Alla clinica, mi domando come sarebbe la tua faccia, Il mascara mi sanguina negli occhi, Legata come un cane a una catena con una crisi di mezza età e un ex marito, Furtivamente fumo una Marlboro Ultra Light che ho rubato a un'infermiera là fuori nel vicolo. A metà strada è dove si trova il cuore e io sono a metà strada.” Impossibile non commuoversi di fronte a tanta intensità, figlia del talento di un’artista che sa osserva il mondo che la circonda, per poi raccontarlo, con passione, certo, ma anche con uno sguardo asciutto, disilluso e impietoso.

Senza nulla togliere a tutti i tre dischi che l’hanno preceduto, Strays è di certo il miglior album di Margo Price, un’artista che, pur senza rinnegare il proprio passato e le proprie origini, ha avuto il coraggio di uscire dalla comfort zone, per esplorare nuovi territori, trovando il meritato successo commerciale, ma soprattutto, una nuova, più consapevole identità.

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