Yo La Tengo – This Stupid World (2023)
di Carmine Vitale
Esistono molti modi per provare a risanare una frattura profonda e, a volte, bisogna essere disposti a passare per metodi non convenzionali. Assorbire, metabolizzare, trasformare sono termini entrati con prepotenza nel vocabolario emotivo del trio originario di Hoboken che risponde alla voce Yo La Tengo, impegnati a loro modo a fronteggiare un nemico silenzioso in grado di sopraffarti pur senza essere visibile. E non si è di certo fatta attendere una reazione, prima impulsiva con l’EP We Have Amnesia Sometimes (2020) con la band impegnata a trovare delle vie di fuga che potessero tirarli fuori da un torpore dilagante, poi ragionata e qui decisa a fare i conti sul serio con “questo stupido mondo“.
This Stupid World è il risultato cristallino di un percorso lungo quasi quattro decenni, durante cui la formula imbastita dalla coppia Ira Kaplan e Georgia Hubley si è rivelata capace di adattarsi ai mutamenti del tempo, al passaggio di vecchi e nuovi compagni di viaggio, a “nuovi” – quelli sì – stimoli da tradurre in musica. Così l’album numero sedici della lunga carriera a firma YLT si assume l’onere di fotografare un momento preciso della storia della band che continua a mostrare – sorretta al basso dal fido James McNew – un’instancabile smania di essere parte attiva in un presente lontano da frenesia e mero arrivismo; un momento in cui urgenza espressiva e assenza di calcoli cervellotici diventano opportunità per far riaffiorare quell’esprit da indie-rock band (etichetta sempre troppo stretta nel loro caso) mai sopito.
Lo stupido mondo, incastrato nel mare tumultuoso della band, finisce così per essere specchio di un abisso profondo dalle tinte fosche e con pochi appigli luminosi, dove è l’equipaggio l’unico artefice del proprio destino. Si tratta infatti di un album interamente pensato, arrangiato e prodotto dagli Yo La Tengo per gli Yo La Tengo: suggestioni ed emotività assortite in presa diretta e l’impressione forte di una dimensione “live” forse mai così pregnante in una prova sulla lunga distanza del trio. Così, nel tentativo di trovare una forma al caos dilagante, Kaplan e soci ripercorrono lidi noise e in quota darkwave in Sinatra Drive Breakdown (I see something regained and lost again/ your eyes, your love/until we all break), rapide lucenti e malinconiche in Fallout, materiale alchemico che i Nostri mostrano di padroneggiare con l’indulgenza di veterani, e che confluisce in quel procedere lento e distratto dell’eterea Aselestine, che diresti uscita dal troppo spesso sottovalutato The Boy With the Arab Strap a firma Belle and Sebastian; in ogni caso sparuti sprazzi di luce immersi in timbri dalle cromie tendenti al cupo (Until It Happens), giochi di luci ed ombre in chiave vagamente dream pop (Apology Letter), lunghe cavalcate chitarristiche nella title-track Stupid World – sulla scia dei Crazy Horse – in cui si addensano monoliti noise, sperimentazioni kraut e una schizofrenia sonora che fotografa in modo spietato cosa sia oggi la quotidianità e quanta fatica comporti affrontarla per il trio del New Jersey (this stupid world/ it’s killing me/ this stupid world is all we have).
Si è già lontani anni luce quando il richiamo da sirena di Georgia Hubley, nella conclusiva Miles Away, giunge serafica a calmare le acque e a siglare una prova che afferma – se ancora ce ne fosse bisogno – la statura artistica di una band che, nelle ultime quattro decadi, ha avuto il merito di restare fedele ad un’idea di fare musica che andasse oltre le correnti, le mode, i trend. Reinventarsi, in musica come nella vita, solo per uscire vivi da questo stupido mondo.
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