Kurt Vile - (Watch My Moves) (2022)
Dice Wikipedia che nel 2014 il gigantesco murale realizzato un anno prima a Philadelphia in onore di Kurt Vile venne ricoperto di vernice bianca per mano di uno zelante cittadino impaurito dalla possibilità che l'opera attirasse altri graffiti nel quartiere. Dopo essere stato identificato, il tizio ammise di aver fatto una cosa decisamente stupida e lo staff di Vile ripristinò il disegno, che nel frattempo era diventato la copertina di "Wakin' On A Pretty Daze", un titolo che ancora oggi riassume perfettamente l'approccio di Vile alla materia compositiva. Da sempre, le sue uscite discografiche sono il risultato di un metodo tanto lento nella costruzione (quello di chi si è appena svegliato), quanto adagiato nella foschia post-stordimento della quale Kurt è maestro; un'estetica slow-food applicata alla composizione, che prende forma sull'onda di una prima intuizione e viene poi fisiologicamente assecondata in base a un processo il cui esito è ogni volta ignoto anche allo stesso autore.
Si potrà obiettare, e non a torto, che la tecnica in questione è invero piuttosto distante da quelle normalmente associate a risultati pop memorabili, ma bisogna riconoscere che in questa nebulosità Vile riesce a mantenere uno stretto rapporto di sincerità con il pubblico. Se il mestiere dell'artista è talvolta un gigantesco insieme di colpi più o meno ad effetto, il cui manuale di regole può in teoria regalare quindici minuti di celebrità a chiunque, Kurt è il tirocinante eternamente refrattario all'enfasi (in puro stile slacker), quello che apre il libro in un punto a caso ma è troppo pigro per seguire le indicazioni e finisce ogni volta per perdersi a modo suo. Una caratteristica che, fin dalla sua fuoriuscita dai War On Drugs, ha permesso la costruzione di un mondo musicale immaginifico, efficace nel far collassare parte delle istanze del rock americano in un lungo e placido caleidoscopio di sensazioni sbilenche, talvolta cinematografiche.
"(watch my moves)", nono episodio sulla lunga distanza (considerato anche il lavoro con Courtney Barnett), non esula da questa impostazione. Adagiato nella pacata consuetudine della vita di famiglia (questa volta agevolata da quasi due anni di lockdown), Kurt ha ancora una volta fatto tesoro del suo parco chitarre e della sua ossessione preferita (i pedali ad effetto) per completare l'ennesima generosa tracklist, nella quale l'opener "Going On A Plane Today", una filastrocca per pianoforte e ottoni, è forse una delle cose più estranee alle specialità della casa.
Passata la sorpresa, tocca a "Flyin' (Like A Fast Train)" cercare di rimettere la cose a posto, ma non è facile su uno slow tempo trascinato da una drum machine quasi cha-cha. Vile si riappropria del cantato sornione che tutti gli riconosciamo e si getta nella vaporosa ripetitività di tastiere anni Ottanta in "Palace Of OKV In Reverse", anticipando il primo singolo dell'album, "Like Exploding Stones", sognante suite di sette minuti su cui si affaccia, distante e sconclusionato, un sax uscito da uno strip bar di serie B.
Sembra preda di un incantesimo, Vile, mentre snocciola strutture di pochi accordi sempre di buona fattura dal punto di vista delle rifiniture chitarristiche ma inesorabili nel farti viaggiare a una velocità che non sembra mai quella giusta, su una strada dove non ci sono buche o incroci pericolosi. Mentre lo ascolti, sei come sempre sospeso tra la speranza che succeda qualcosa e la sensazione di essere inspiegabilmente preso bene. Qualcosa però succede davvero, soprattutto nella deliziosa ironia à-la Mark Knopfler di "Jesus On A Wire" ("Jesus on the phone/ Talking 'bout a nervous breakdown/ Even he don't know/ How to bail us out of this one") o nelle screziature southern care a Tom Petty in "Cool Water", mentre una più incalzante "Fo Sho", col suo riff di chitarra distorta su un tappeto di synth improbabile, fa da contraltare a due episodi strumentali puntiformi come "(shiny things)" e "Kurt Runner", il secondo dei quali debitore della passione di Kurt per l'immaginario creato da Vangelis in "Blade Runner".
Scandita da un sibilo che ricorda lo "Shoot me!" di "Come Together", è la delicatezza in cifra Eels di "Stuffed Leopard" a chiudere un viaggio durato un'ora e quindici minuti, forse fuori misura per la media degli album attuali. Ma questo è Kurt Vile, e "(watch my moves)" è un nuovo tentativo di trasmettere il bucolico distillato di sensazioni che lui sperimenta nel mondo. Quella maschera da coccodrillo in copertina, opposta alla seriosità delle due figlie dodicenni, sta lì a dimostrarlo.
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