Fontaines D.C. - Skinty Fia (2022)

di indie-rock

Quel cervo un po’ stranito nel ritrovarsi nel sottoscala di un’abitazione tipicamente anglo-sassone, in realtà non esiste più. Il megaloceros giganteus, o “grande cervo irlandese” è scomparso tra 9200 e 9400 anni fa, ma rappresenta l’attualissima metafora dell’allontanamento dal luogo di origine che quattro dei cinque membri dei Fontaines D.C. stanno sperimentando dopo il repentino successo ottenuto negli ultimi tre anni. Solo il chitarrista Conor Curley è rimasto a Dublino, centro di formazione di ogni membro del gruppo e ragione per cui dopo “Fontaines” ci sia “D.C.”, ovvero “Dublin City”. Emigrati in quel di Londra, vivono forse Grian Chatten (voce), Carlos O’Connell (chitarra), Tom Coll (batteria) e Conor Deegan III (basso) lo stesso senso di alienazione dell’imponente quadrupede? Di certo ‘Skinty Fia‘ (“la dannazione del cervo” in gaelico irlandese), che arriva quasi precisamente a un triennio di distanza da ‘Dogrel‘ (2019) e a poco più di 20 mesi da ‘A Hero’s Death‘ (2020), è un disco in cui la lontananza e la nostalgia si trasformano in senso di colpa e sconforto. Come se, lontano dalla propria città, non si possa essere felici ma soltanto, per l’appunto, dannati.

È un disagio interiore che le 10 canzoni della scaletta rendono perfettamente, prima di tutto dal punto vista sonoro. Sono più ampi e cinematici i nuovi pezzi, hanno dei ritornelli ariosi che paiono perfetti per i singalong da concerto. Non ci sono più le irruenze punk-rock dell’esordio, non c’è la cupezza a senso unico del sophomore, ma il quintetto irlandese non è certo meno amaro e meno risoluto. Siamo forse a una sintesi che ne caratterizzerà lo stile, un post-punk maggiormente aperto a influenze storicamente più recenti, soprattutto dei nineties, del grunge nirvaniano e del brit-pop versione Oasis, che non vengono però solo citati ma inglobati in un suono coeso e stratificato come mai lo è stato. Fa eccezione – ma significativamente – quella ‘The Couple Across The Way‘ che vede Grian cantare e suonare contemporaneamente una fisarmonica (guarda caso, tra gli strumenti Irish per eccellenza) senza nessun altro accompagnamento, l’unico brano in cui la produzione del sempre presente (e fondamentale) Dan Carey non può intervenire granché.

È come si diceva, un grosso passo avanti questo disco. Più profondo del primo, più colorato del secondo, allo stesso modo ricco di grandi canzoni, che è poi quello in cui i Fontaines D.C. sembrano essersi specializzati a scrivere, senza perdere la sfrontatezza dei primi tempi. ‘Jackie Down The Line‘ è ormai un classico e il brano che si staglia sopra a tutti gli altri, ma ‘Big Shot‘, ‘Roman Holiday‘, ‘Skinty Fia‘, e ‘I Love You‘ non sono certo da meno per intensità e cantabilità, così come ‘In Ár Gcroíthe Go Deo‘, ‘Bloomsday‘ e ‘Nabokov‘ per l’utilizzo enormemente empatico del rumore. Non siamo ancora al capolavoro assoluto, ma ci troviamo al cospetto di un album gigante come il cervo della cover, e a una band che, palesemente, un masterpiece sarà in grado di realizzarlo, prima o poi. Probabilmente, più prima che poi.

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