Cowboy Junkies - Songs Of The Recollection (2022)
“Songs Of The Recollection” è un album di cover, nove canzoni di autori molto amati dai Cowboy Junkies che vengono reinterpretati con passione e amore, sentimenti che riescono a trasmettere in chi ascolta. La band composta dai tre fratelli Timmons, Margo, Michael e Peter, e dal loro fedele amico, il bassista Alan Anton, infatti non smentiscono se stessi e ci danno un’opera di pregevole fattura, ispirata e godibilissima. Ci sono band, i Cownoy Junkes sono fra queste, a cui non si chiede tanto di operare chissà quali cambiamenti, ma di riuscire sempre a mantenere quel livello, quel tono, quell’atmosfera che ce le hanno fatte amare. Ed è un piacere ritrovare i quattro in perfetto affiatamento con la sezione ritmica che conferisce quel ritmo cadenzato che evoca grandi spazi e tempi distesi, le chitarre espressive e inventive sia nell’arpeggio che nell’uso di feedback e distorsioni e soprattutto la voce dolce di Margo che qui si colora spesso di toni scuri e perfino di guizzi di rabbia. La scelta delle cover si è orientata verso canzoni con testi inquieti, dolorosi, tormentati e questa loro caratteristica viene sottolineata sia dall’interpretazione della vocalist sia dalle scelte musicali negli arrangiamenti. Esemplare è la splendida versione di Ooh Las Vegas di Gram Parsons reinterpretata con una forte tensione drammatica, con chitarre in feedback e dolorose e la voce che si incupisce e vibra di emozioni, mentre la versione originale era un classico country-rock, qui senti in modo palpabile il dramma di un ragazzo povero nella scintillante città di plastica. Il disco si apre con la profetica e torbida Five Years di David Bowie in una versione palpitante e molto riuscita. Gli Stones di No Expetations sono resi con un arrangiamento country sorprendente, mentre il Neil Young di Don’t Let It Bring You Down esalta il lato rock e il trionfo di chitarre colorate dal sole del deserto e l’altra cover del canadese, Love In Mind, ne rilegge con passione e profondità il lato più autunnale e nostalgico. Il Dylan di I’ve Made Up My Mind To Givee Myself del 2020 accentua il ritmo da valzer e ha nella voce piena di pathos e dolore di Margo e nell’ essen ziale e limpido arpeggio di chitarra i suoi punti di forza. Altra perla la dolorosa Marathon del compianto Vic Chesnutt, sommessa e oscura fino all’irrompere di una drammatica esplosione di chitarre in arrembanti feedback. Non meno riuscite le cover di The Way I Feel di Gordon Lightfoot, tesa e vibrante, e della desolata Seventeen Seconds dei Cure.
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