Calexico – El Mirador (2022)

 

di Marco Boscolo

Li avevamo lasciati un paio di anni fa con un disco, Seasonal Shift, che era un vero e proprio passo falso: un Christmas album poco ispirato e un bel po’ paraculo. Adesso li ritroviamo al giro di boa del decimo disco e del quarto di secolo di attività. Era infatti il 1997 quando Joey Burns e John Convertino uscivano dai Giant Sand per esplorare in autonomia la contaminazione tra USA e Messico. In questi venticinque anni, molte cose sono cambiate. Allora guardare oltre il Rio Grande da una prospettiva bianca era quasi pionieristico, con la musica dell’area culturale dell’America Latina che, fatto salvo alcune eccezioni, era considerata “world music”, un esotismo. E a ben guardare il viaggio dei due Calexico non partiva da premesse filologiche o di recupero di tradizioni e culture poco note al grande pubblico, ma guardava soprattutto all’immaginario delle colonne sonore, in particolare a Morricone e agli spaghetti western: quindi ancora una volta lo sguardo bianco sul confine messicano.

Oggi il panorama è completamente diverso, la musica latina ha definitivamente conquistato, per numeri e impatti, il mercato del mainstream. Basti pensare al recente successo di Rosalía (e per capirne il peso, leggetevi la recensione di MOTOMAMI), all’influenza delle culture LatAm nella produzione Pixar recente (cosa c’è di più trasversale in termini di immaginario pop?). Per stare in casa nostra, si potrebbe anche citare la svisata cumbiana di Davide Toffolo e i suoi Tre Allegri Ragazzi Morti. Tutto questo per dire che quando ascoltiamo El Mirador questi venticinque anni contano, eccome. Non abbiamo più le stesse orecchie vergini in quell’ambito musicale (pensando soprattutto all’ambito che a fine Novanta chiamavamo “indie”) e di proposte diverse, diversissime tra loro, ne abbiamo ascoltate tante.

Premessa necessaria per dire che il sospetto di trovarsi ad ascoltare due bianchi di mezza età alle prese con qualcosa che per loro è ancora esotico, ma che per il mondo è la normalità, c’era. E così, purtroppo, è. Nel senso che le canzoni di oggi sono sicuramente delle buone canzoni dei Calexico: lontane dai fasti degli esordi, ma se contestualizzate nella loro discografia, dignitosissime. Il problema è che sembra di sentire canzoni pop molto americane, addomesticate e anestetizzate come a volte è il pop più commerciale, vestite, arrangiate in una forma esotista. Ecco emergere qualche ritmo un po’ più complesso dei canonici 4/4 del pop, qualche guitarón, qualche fiato che fa Messico e linea di confine, ma con un’impressione generale che una vera commistione di sguardi, tra quello americano di loro provenienza e quello latino che loro evidentemente ammirano, non ci sia stata.

Sono parole senz’altro poco generose nei confronti di una band che ha aperto uno spiraglio di originalità. Ma questo è successo venticinque anni fa, quando il mondo era diverso e i Calexico coltivavano un’intuizione al limite del geniale. Sarebbe a sua volta ingeneroso, in virtù della loro storia, non riconoscere che accanto al repertorio maggiore, queste canzoni sembrano meno urgenti, meno sincere, più di maniera e messe insieme un po’ con il pilota automatico. La formula continua a funzionare, ma ha già detto tutto ciò che aveva da dire.

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