Say It Loud: come James Brown ridefinì l’orgoglio di essere neri

di Luca Divelti

Non era un momento facile nell’America del 1968: gli orrori e le troppe difficoltà incontrate dall’esercito statunitense nella guerra del Vietnam, che doveva essere lampo e che invece sembrava non finire mai, avevano scosso gran parte dell’opinione pubblica. Ma le proteste vibranti dei giovani, fonte d’imbarazzo per gli Stati Uniti in tutto il pianeta, non erano l’unica preoccupazione per l’Amministrazione Johnson: anche il movimento per i diritti civili, nonostante i suoi metodi pacifici, era considerato una spina nel fianco volta a lacerare il tessuto sociale americano.

Martin Luther King non si fece pregare per esporre pubblicamente tutte le contraddizioni di un paese che appariva smarrito e che proprio nel conflitto in Vietnam si era ritrovato nudo: se, come veniva costantemente ripetuto, gli Stati Uniti erano talmente nobili da lottare in quel lontano paese del sud est asiatico per guidare alla riscossa e alla libertà il popolo vietnamita, per quale motivo allora agli afroamericani, in quegli stessi Stati Uniti, veniva negata ogni forma di diritto sociale?

La denuncia sull’ipocrisia statunitense nell’inviare in una guerra di liberazione giovani neri, gente che non godeva spesso delle più basilari libertà, portò alla presa di coscienza popolare che qualcosa andava fatto per cambiare: purtroppo il pastore King non riuscì a vedere concretizzarsi questa aspettativa.

A fermare il sogno d’integrazione del reverendo fu un proiettile sparato da un fucile di precisione, che lo colpì alla testa mentre si trovava sul balcone di un motel di Memphis. L’omicidio del quattro aprile 1968 scatenò violenze e tumulti in centinaia di città: gli esasperati cittadini di colore misero da parte i dettami pacifici predicati a lungo da King e diedero sfogo a tutta la loro frustrazione con proteste e rivolte popolari che durarono giorni.

Tra le città colpite dalla sommossa popolare ci fu anche Boston, che si preparava a vivere un’altra notte in piena emergenza dopo una serie di disordini e incendi. Come se non bastasse, a far accrescere l’ansia dell’amministrazione comunale c’era anche un evento che avrebbe attirato migliaia di afroamericani potenzialmente furibondi: al Boston Garden il giorno successivo all’omicidio di Martin Luther King era infatti previsto da tempo proprio un concerto di James Brown.

Dapprima il neo eletto sindaco Kevin White, che temeva un’escalation delle violenze e che soprattutto non aveva idea di chi fosse il nome in cartellone, puntò sbrigativamente a cancellare l’esibizione del Padrino del soul.

A bloccare la decisione fu Tom Atkins, l’unico consigliere di colore in giunta, che spiegò ai presenti quanto potesse essere potenzialmente più pericoloso annullare il concerto, con il forte rischio di innescare un’insurrezione per aver cancellato lo show di uno degli artisti più amati dalla comunità nera.

Atkins, dopo aver messo in crisi l’intero processo decisionale dell’amministrazione cittadina, suggerì una soluzione e propose di mandare James Brown in scena nella casa dei Boston Celtics con una forte riduzione dei posti disponibili e, quindi, anche dei potenziali problemi di sicurezza. Inoltre, il piano concepito da Atkins prevedeva anche di mandare in onda gratuitamente l’evento presso un’emittente locale, così da invogliare i cittadini a restare a casa.

L’idea mise tutti d’accordo: mancava l’avvallo del principale protagonista, che avrebbe perso una montagna di soldi per i mancati introiti al botteghino. Un sostanzioso assegno di 60.000 dollari, staccato non molto volentieri dal sindaco White, convinse James Brown a non porre veti e a tranquillizzare definitivamente la situazione.

Invece dei 14.000 fan previsti ne furono fatti accedere alla struttura solo 2.000: il concerto sembrò scorrere senza alcun intoppo e soprattutto senza alcun tipo di protesta o violenza, tanto che il sindaco White e i suoi collaboratori iniziarono a rilassarsi e a godersi lo spettacolo offerto da Mr. Dynamite.

Poi a metà spettacolo dei ragazzi di colore salirono sul palco, raggiunti quasi subito dai poliziotti presenti al Garden, pronti a sedare qualsiasi intemperanza imprevista. James Brown fu lesto a fermare il concerto e a bloccare i poliziotti, con l’intento di calmare la situazione per evitare scontri inutili.

Il cantante si rivolse duramente alla folla, puntando il dito contro chi aveva interrotto lo spettacolo, il cui comportamento non faceva onore né a lui, né a tutta la comunità afroamericana: le parole di Brown riportarono la calma e così si poté riprendere e finire senza altri intoppi lo show.

Il carisma di James Brown fu in grado di stemperare una situazione potenzialmente esplosiva, in cui c’era tanto da perdere per la gente di colore: ma la scommessa di Tom Atkins fu vinta anche perché Brown stava diventando rapidamente uno dei maggiori riferimenti culturali della comunità nera.

Nato negli anni trenta, visse il disagio, i campi di cotone e la povertà come tanti suoi coetanei, finendo anche in prigione per una rapina da adolescente. Da quell’esperienza uscì convinto di dover trovare una strada che lo tenesse il più lontano possibile dal carcere e, dopo vari tentativi, fu la musica a dargli una prospettiva diversa.

La vera svolta per il futuro Soul Brother Number One avvenne negli anni sessanta, quando si staccò prepotentemente dai consueti schemi R&B che gli avevano regalato i primi successi, spingendo l’acceleratore su qualcosa di nuovo, in cui il ritmo si faceva tenacemente preminente sul resto.

Nasceva il funk, che metteva in secondo piano la melodia e perfino le parole dei testi, spesso prive di un vero senso e sostituite da vigorose e rauche improvvisazioni vocali, mentre il groove si estendeva e prendeva possesso del brano con lo scopo finale di spingere l’ascoltatore al ballo.

Quando Brown iniziò a percorrere la sfacciata strada del funk puntò tutto sullo sviluppo di un nuovo filone che partiva dal jazz e allargava gli orizzonti della sterminata tradizione musicale afroamericana, incaricandosi di gettare fuori dalla finestra tutti i sentimenti contrastanti e latenti che i musicisti afroamericani sentivano per l’R&B addolcito, zuccheroso e inoffensivo voluto dai produttori per compiacere i bianchi: il funk era selvaggio, primitivo, crudo e soprattutto libero dai condizionamenti di qualsiasi sorta.

Ciò che più faceva paura prima all’industria musicale e in seguito alla politica, era quello che c’era dietro al funk: il netto rifiuto a piegarsi. Mr. Dynamite e la strepitosa band che lo accompagnava trascinavano i fan in un luogo alternativo, in una comunità chiusa in cui solo i neri avevano diritto di accesso e dove, sopra ogni legge e controllo, erano finalmente liberi di essere sé stessi.

Papa’s got a brand new bag, I got you (I feel good), Cold sweat, Get up (I feel like being a) Sex Machine, Hot pants sono alcuni mirabili esempi delle incredibili improvvisazioni, riff geniali e groove incandescenti che hanno cambiato la musica pop grazie al Padrino del soul.

Ma James Brown non era solo un innovatore e un cantante all’apice della carriera in quel 1968, ma anche un uomo di colore che dall’alto della sua posizione era tenuto a esprimersi su quanto stava capitando alla comunità afroamericana.

Un James Brown memore di quanto accaduto sul palco a Boston, oltre che di tutte le altre rivolte accadute nei mesi seguenti all’assassinio di Martin Luther King, si chiese dove fosse finito l’orgoglio della sua gente: considerava le insurrezioni non solo un‘offesa alla memoria del reverendo, da sempre ligio nella sua missione d’insegnare il rifiuto alla violenza, ma in particolar modo un’enorme ingenuità, che aveva fatto perdere credibilità al movimento dei diritti civili e ridato fiato al sdegnoso razzismo dei bianchi. 

Brown sentiva che la comunità nera si stava perdendo dopo la scioccante scomparsa del reverendo King e la rabbia e la frustrazione stavano diventando emozioni predominanti, con il rischio di compromettere quanto raggiunto fino a quel momento.

Colto da questi pensieri, prese un tovagliolo in un ristorante e annotò in poche parole ciò che gli stava più a cuore: sono nero e ne sono orgoglioso.

Pubblicato nell’agosto 1968 Say It Loud (I’m Black and I’m Proud) divenne in poco tempo un inno funk per i diritti civili, in cui Brown sollecitava la gente di colore a gridare ad alta voce la propria appartenenza e la propria identità, rivendicando la dignità e la fierezza di essere neri.

Durante un’intervista al Newsweek James Brown spiegò quello che c’era dietro la sua posizione: “noi neri abbiamo bisogno di leadership, di istruzione e di speranza”.

Per Brown gli afroamericani non dovevano farsi problemi per come venivano chiamati dai bianchi, che si autoproclamavano dalla parte del giusto e quindi erano i “buoni”: i neri potevano essere tranquillamente i “cattivi” della storia, ruolo che da sempre interpretavano e che non doveva più fargli paura, perché finalmente sapevano chi erano e cosa volessero.

Se negli fino a metà degli anni sessanta il termine “negro” veniva preferito dagli afroamericani rispetto a “nero”, considerato alla stregua di un insulto, dopo Say It Loud (I’m Black and I’m Proud) la situazione di capovolse: la gente di colore iniziò a rivendicare con orgoglio il proprio colore e la propria cultura.

Nei suoi concerti il Soul Brother Number One iniziò sempre più a dilungarsi in sermoni in cui invitava il pubblico di colore a impegnarsi nel sociale e a proseguire sulla strada della non violenza per sconfiggere le diffidenze e la discriminazione razziale americana. Questo gli costò critiche e anche la perdita di molti fan bianchi, che non accettarono evidentemente la scelta d’infilare questioni politiche negli show.

La rivoluzionaria Say It Loud (I’m Black and I’m Proud) espresse impudentemente, come era nel DNA del funk, che il bene più importante posseduto dagli afroamericani era la dignità, che non doveva mai venir meno.

Come scrisse il New York Times in quell’estate del 1968, “James Brown per i bianchi è solo un grugnito, ma per i neri è l’unico uomo in America che possa fermare una rivolta razziale e mandare la gente a casa a guardare la televisione.”

Questa storia fa parte del libro:
Black Songs Matter
Trenta artisti di colore che hanno cambiato la storia della musica

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