Nat King Cole: anticipare sui tempi il superamento del razzismo
di Luca Divelti
Può un afroamericano cantare d’amore ed essere socialmente tollerabile per il pubblico bianco?
Prima di Nat King Cole i musicisti di colore erano caldamente invitati a evitare nelle loro canzoni argomenti di carattere romantico, mentre erano ben più graditi se raccontavano nei loro blues di lavoro e fatica o si spendevano in qualche canzonetta dai ritornelli nonsense. Cole fu il primo a rendere accettabile per un bianco l’idea di non cambiare stazione radio di fronte alla sua voce e addirittura contemplare di acquistare un disco di canzoni d’amore cantate da un uomo di colore.
Nat King Cole sembrava destinato a dover anticipare i tempi: ammaliato dalla musica fin da piccolo, non riuscì a resistere al richiamo del jazz e intraprese la carriera di pianista poco più che adolescente. I club lo avevano sempre attratto, tanto da farlo sgattaiolare più volte fuori di casa mentre i suoi genitori dormivano, trascinandolo dentro un vortice di note, voci, balli e sudore che erano magnetici e affascinanti per lui come niente altro.
Sul finire degli anni trenta Nat non aveva ancora vent’anni, ma la sua precocità lo aveva portato già a formare il suo primo trio e a incidere qualche disco, sposando la carriera di jazzista: i suoi anni iniziali furono all’insegna delle esibizioni nei locali notturni come pianista e lontani dalla prospettiva di diventare un cantante, anche se, con il passare del tempo, la voglia di mettere in gioco la sua voce calda ed elegante si faceva sempre più insistente.
All’inizio degli anni quaranta il successo del suo King Cole Trio favorì la nascita di formazioni di piccole dimensioni, che andarono sempre più a sostituire le big band, ma la svolta definitiva avvenne nel 1943, quando ruppe gli indugi e firmò per la Capitol Records.
Presso la nuova casa discografica iniziò un percorso artistico che progressivamente lo portò nel corso degli anni ad abbandonare la figura di pianista per vestire i panni di cantante: la prevalenza della sua voce nelle canzoni crebbe proporzionalmente ai dati di vendita registrati dalla Capitol, fino al punto in cui Cole decise di lasciarsi alle spalle una carriera jazzistica solida, ma senza particolari prospettive di crescita, per il grande sogno di un’affermazione definitiva presso un vasto pubblico.
Straighten Up and Fly Right e soprattutto Mona Lisa gli regalarono i primi grandi successi e una brillante condizione economica a cui pochi artisti di colore potevano ambire all’epoca: per Cole, cresciuto nell’Alabama segregazionista in cui imperavano le leggi razziali di Jim Crow, fu probabilmente naturale riscattare le sue umili origini acquistando una villa in un elegante quartiere di Los Angeles dove metter su famiglia.
Gli abitanti di Hancock Park, però, non gradirono particolarmente i nuovi vicini, nonostante Nat King Cole fosse ormai una celebrità. D’altra parte, quando l’area residenziale era stata costruita negli anni venti, fu stabilito per statuto che per cinquant’anni non sarebbe stato possibile far risiedere nelle abitazioni persone di colore, a meno che non fossero personale di servizio o domestici: Nat e sua moglie Maria, ben consapevoli di questo atto restrittivo, tirarono dritto, pronti ad affrontarne le conseguenze.
I residenti provarono comunque a spiegare ai nuovi venuti che non tolleravano indesiderabili tra i residenti, ricevendo come risposta dall’affabile e cordiale Nat King Cole “neanche io voglio vederne: semmai degli indesiderabili verranno nel quartiere sarò il primo a lamentarmi”.
I bravi abitanti di Hancock Park non accettarono la ferma determinazione dei Cole nel voler restare comunque nel quartiere e non fecero mancare loro intimidazioni e minacce di varia natura nel tempo, arrivando anche a bruciare una croce sul prato davanti alla casa del cantante e ad avvelenarne il cane.
Nonostante fosse chiaro a Cole che la fama e il denaro non potevano comprare il rispetto ed evitare i tormenti del razzismo americano, non lasciò mai la casa dove visse gli anni della sua folgorante ascesa. Nel 1952 diede alle stampe Unforgettable, la canzone che gli avrebbe segnato la carriera: accompagnata da un’orchestra che ne metteva in risalto la leggerezza della melodia, Unforgettable spiccava per la vellutata voce di Cole, che accarezzava dolcemente le note e l’orecchio dell’ascoltatore.
Unforgettable era il perfetto esempio della morbida svolta pop di Cole: pur mantenendo all’interno della sua produzione una forte impronta jazzistica, virò prepotentemente verso ballate eleganti e raffinate, imponendo uno stile che avrebbe fatto scuola tra i crooner delle generazioni successive.
Nat King Cole, nonostante il successo innegabile, non riuscì mai a raggiungere le vette di popolarità toccate presso il grande pubblico da Frank Sinatra e Bing Crosby: a frenarne l’ascesa fu senza dubbio il suo essere di colore.
Lo stesso Cole ne era consapevole e per non compromettere la sua carriera preferì sempre mostrarsi cauto nelle sue dichiarazioni sull’integrazione razziale, ricevendo spesso dure critiche dalla comunità afroamericana.
Nat King Cole si vedeva e raccontava come un mero intrattenitore e non era intenzionato a entrare in questioni politiche e sociali, neanche quando fu vittima di un attentato nella sua natia Alabama.
Nel 1956 venne infatti assalito a Birmingham durante un concerto di fronte a un pubblico di soli bianchi e fu salvato solo grazie al repentino intervento della polizia: gli attentatori, sei uomini appartenenti al White Citizens Council locale, motivarono l’aggressione sostenendo l’immoralità della musica nera.
Cole, uscito malconcio e spaventato dall’assalto, si mostrò nelle successive dichiarazioni soprattutto sorpreso di aver subito un attentato nonostante non avesse mai preso una chiara posizione sulle questioni razziali: il razzismo, però, non faceva distinzioni.
Sul finire dell’anno la NBC lo ingaggiò per uno show televisivo a suo nome. Non era la prima volta che i media si interessavano al suo successo e volevano cavalcarlo: nel 1946 fu protagonista con il suo gruppo del King Cole Trio Time, trasmissione radiofonica che ospitò per la prima volta musicisti di colore come conduttori.
Lo spettacolo, malgrado i buoni ascolti, fu chiuso dopo qualche mese: la NBC difese la decisione nascondendosi dietro le difficoltà di non trovare uno sponsor disposto a investire su un’artista afroamericano, il cui colore della pelle veniva mitigato dal trucco per non infastidire i telespettatori.
L’ipocrisia imperante non modificò mai la linea tenuta dal cantante, che non volle mai militare in alcun movimento per i diritti civili, convinto come molti altri suoi colleghi di colore dell’epoca di non dover esporsi e tenere per sé le proprie convinzioni politiche: allo stesso tempo, dopo i fatti di Birmingham, si rifiutò di esibirsi nei club e teatri delle città dove la segregazione razziale era all’ordine del giorno.
Nat King Cole sembrava destinato ad attraversare imperturbabile le classifiche internazionali per i futuri decenni, pronto a sedurre con il suo garbo e con la sua voce ammiccante e impeccabile milioni di signore. Ma il destino aveva riservato altri progetti per lui: nel 1964, a soli quarantacinque anni, si accorse di non stare bene e scoprì in breve tempo che un cancro ai polmoni lo stava uccidendo. Pochi mesi dopo Nat King Cole usciva di scena, ucciso probabilmente dai tre pacchetti di sigarette giornalieri che giustificava per rendere più morbida la sua amata voce.
Lasciava a chi veniva dopo di lui la consapevolezza che sarebbero venuti tempi migliori e che anche un cantante di colore poteva affermarsi nello show business dei bianchi: la sua eleganza e le sue canzoni d’amore, piccoli incantesimi regalati alla musica popolare, hanno tratteggiato il ritratto di un’artista senza tempo. E “indimenticabile”.
Questa storia fa parte del libro:
Black Songs Matter
Trenta artisti di colore che hanno cambiato la storia della musica
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